Cominciamo con una premessa indispensabile: per capire l’arte di Gottfried Helnwein, protagonista molto atteso di una mostra che aprirà a Venezia alla Marciana il prossimo 2 luglio (a cura di Manfred Möller), bisogna guardare oltre l’apparenza. Sarebbe infatti facile incasellarla come aspra e implacabile pittura di denuncia, visti i suoi soggetti così spesso deturpati, devastati dalla violenza orrenda della storia. La sua è pittura che con puntigliosità fotografica non risparmia nulla al nostro sguardo: sconvolge, incalza, interroga, smuove. È arte che infierisce a oltranza. Eppure alla fine ci si rende conto che la sua non è pittura prigioniera degli incubi che documenta e rappresenta. Dietro l’evidenza di queste sue immagini c’è un’energia opposta che vuole sottrarsi a quel destino.

Serve una speranza

Helnwein è uno di quegli artisti che, come Anselm Kiefer, Gerhard Richter o Georg Baselitz, per stare sui nomi più famosi, sono stati chiamati a fare i conti con le colpe derivate dalla loro appartenenza all’identità tedesca. Helnwein è austriaco e ha fatto sua la consapevolezza traumatica di appartenere a una nazione che ha avuto un ruolo nell’Olocausto e che si è protetta nel tragico mito della superiorità etnica. È nato nel 1948 e appartiene quindi a una generazione obbligata a rompere la cortina di silenzio con la quale la generazione che l’aveva preceduta aveva cercato di coprire le proprie responsabilità e connivenze.

Sulla formazione visiva di Helnwein gioca anche un altro fattore decisivo: l’Austria è un paese cattolico, e la chiesa nazionale si era pesantemente compromessa con il regime, al punto che nel 1938 Pio XI aveva richiamato a Roma l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Theodor Innitzer, e lo aveva costretto a ritrattare l’appoggio annunciato a Hitler. Non c’è quindi da stupirsi se nella pittura di Helnwein l’immaginario indotto dalla storia e quello indotto dalla secolare iconografia religiosa finiscano così spesso con il sovrapporsi. Sovrapporsi non significa però affatto che confluiscano l’uno nell’altro. È questo l’aspetto dell’arte di Helnwein che la sottrae a letture schematiche e la posiziona oltre l’orizzonte di una negatività senza sbocchi. Alla radice dell’arte di Helnwein mi pare di poter affermare che ci sia la necessità di una speranza.

Epiphany

È emblematica la testimonianza del direttore dell’Albertina, Klaus Albrecht Schröder, a bilancio della mostra dell’artista tedesco, organizzata dal museo viennese nel 2013. «Quasi non riuscivo a crederci», ha detto. «È stata la mostra che ha toccato di più la gente, quella che ha commosso tante persone fino alle lacrime. Evidentemente Helnwein scuote le persone nel profondo, muove i loro cuori». La sua opera in effetti è disseminata di indizi che inducono chi la guarda a porsi domande e a lasciarsi scuotere dal messaggio intrinseco nell’opera. Uno di questi indizi è spesso il titolo. Epiphany è una formula usata per alcune grandi opere della fine degli anni Novanta; una formula abbinata a soggetti certamente non palesemente gioiosi come è stata per secoli la rappresentazione dell’Adorazione dei Magi. «Epiphany», ci spiega Helnwein, «indica la manifestazione di una realtà divina o soprannaturale, oppure ogni momento di grande e improvvisa rivelazione». Evidentemente sente l’urgenza che l’opera non resti ingabbiata nella situazione storica che viene sviscerata e rappresentata, ma che contenga sempre un punto di uscita, un fattore imprevisto capace di innescare, in chi la osserva, una rivelazione.

Per la tela intitolata Epiphany III (Adoration of the Shepherds), Helnwein ha preso spunto da una foto scattata nel 1931 da Heinrich Hoffmann nella Braunes Haus, la sede del Partito nazionalsocialista a Monaco. Nella foto originale le SS assiepate puntavano lo sguardo devoto verso Hitler; Helnwein invece ha creato un corto circuito mettendo di fronte a loro una Madonna raffaellesca con il Bambino. L’opera è una denuncia di quella drammatica confluenza tra politica e religione maturata nell’Austria degli anni Trenta; ma non è solo questo. Il Bambino, come in tante opere di Helnwein, è portatore di quella che l’artista definisce «l’essenza dell’essere umano».

Per questo tiene gli occhi chiusi, come per un rifiuto rispetto agli sguardi voraci che lo vorrebbero portare dalla loro parte, e allunga il dito puntato che, se non è di condanna, è come il segno di una presa di distanza. «Lo scopo fondamentale dell’arte, nella sua stessa natura, è spirituale», dice Helnwein. «Qualsiasi vera opera d’arte deve contenere un significato più profondo e deve essere in grado di riservare un impatto emotivo sulla persona che la osserva, deve avere il potere di toccare e commuovere». Poi aggiunge: «La vera arte è evidente e non ha bisogno di una spiegazione teorica o di una giustificazione».

La missione

Un’altra volta Helnwein si era coinvolto con il soggetto della Madonna con il Bambino. Lo aveva fatto ispirandosi a un capolavoro di Mantegna custodito al Museo Poldi Pezzoli di Milano. «È un quadro che mi commuove profondamente», confessa. «Per me, esprime l’empatia di Dio, che diventa un bambino indifeso, e assume la sofferenza di tutta l’umanità, e l’amore incondizionato della madre». Eppure anche questa variazione su Mantegna ha una precisa ragione storica: Helnwein la realizza nel 1993, nel pieno della guerra in Bosnia, una guerra etnica, nella quale tante atrocità erano state commesse sotto la copertura delle rispettive appartenenze religiose. Per questo Helnwein vira l’immagine di Mantegna in un monocromo violetto e soprattutto aggredisce il Bambino con dei tagli che ne feriscono in modo crudele il volto. Quel Bambino violato non rappresenta però un’operazione provocatoria, né tanto meno arbitraria.

Con Helnwein, come abbiamo precisato, bisogna sempre andare oltre le semplici apparenze: l’artista infatti ha scelto una maternità tra le più intense del nostro Rinascimento, un’immagine di grande drammaticità nel suo sottotesto, in quanto il Bambino addormentato nelle braccia della madre è premonizione del destino di passione che lo attende. Quindi è un’immagine perfettamente pertinente rispetto all’urgenza di dover render conto senza scorciatoie di quel precipizio cupo e brutale aperto nella nostra storia recente. Ma il Bambino, pur così ferocemente violato, agli occhi di Helnwein è comunque depositario di una rivelazione.

«Per me», confida l’artista, «il quadro di Mantegna esprime l’empatia di Dio, che diventa un bambino indifeso e assume la sofferenza di tutta l’umanità, ed esprime anche l’amore incondizionato della madre». Un Dio che gli uomini hanno strumentalizzato in modo blasfemo, ma che nonostante questo non si sottrae dal farsi presenza e quindi immagine. Come accade nelle grandi opere di Bacon ispirate all’iconografia della Crocifissione, anche in Helnwein, il soggetto sacro si carica di una violenza al limite del sopportabile e del tollerabile. Diventa fattore di scandalo. Ma questo lo rende necessario e lo strappa alla comfort zone di un grande e glorioso passato e della tanta oleografia che purtroppo ne è seguita.

Quando chiediamo a Helnwein se è corretto guardare alla sua arte come a un’arte antinichilista, lui indirettamente conferma: «La domanda che da artista mi pongo è questa: l’arte ti spaventa, ti sorprende, ti sconvolge, ti eccita? Ti fa pensare? Stimola la tua immaginazione? Cambia in qualche misura il tuo modo di vedere il mondo? L’arte ha una qualità magica che non si può spiegare; non è logica, e se volete sperimentarla, la vostra mente e il pensiero razionale vi saranno di poco aiuto. Puoi solo sperimentarla con i tuoi sensi, il tuo cuore, la tua anima». Per non rischiare di sfuggire dagli sguardi di nessuno, Helnwein spesso ha fatto ricorso a quadri di grandi dimensioni con sviluppi pubblici, come aveva fatto nel 1988 con l’installazione Ninth November Night fuori dalla cattedrale di Colonia: grandi volti di bambini pieni di spavento, per far memoria della Notte dei cristalli. Il tema della sua arte è uno solo: la condizione umana. E per lui l’arte, prima e più che una vocazione, è una missione.

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