Certo come si fa a non sentirsi solidali coi poveri autori di La pupa e il secchione attualmente in onda su Italia1? Esperti di navigazione tra Scilla e Cariddi. Quando il programma esordì, 15 anni fa, era intonato al registro della farsa: c’erano ragazze belle e sceme, secondo il cliché dell’oca giuliva, e intellettuali nerd pallidi e stortignaccoli: alle prime si facevano domande di cultura generale, i secondi venivano interrogati sul trucco e sul gossip. Ne nascevano incroci buffoneschi, scintille di genuina ilarità, e per le pupe era un trampolino di lancio. L’oca giuliva era una maschera che poteva nascondere notevoli doti di intelligenza e astuzia, come nei grandi esempi cinematografici della Judy Holliday di Nata ieri (straordinariamente doppiata da Rina Morelli) o da noi di Sandra Milo.

Ma ad alcune pupe la parte riusciva talmente naturale da far sospettare che non stessero recitando. Anziché giocare con lo stereotipo machista, spesso la trasmissione lo assecondava, e il conduttore Enrico Papi non si tirava indietro. Ora, 15 anni dopo, la situazione sotto il cielo del costume è radicalmente cambiata. Innanzitutto perché la parità di genere è ormai un intrasgredibile dogma (più negli intenti che nella realtà), dunque alle pupe e ai secchioni si dovevano per forza affiancare i pupi e le secchione.

Pupe, secchioni e viceversa

Il personaggio del muscoloso idiota era già presente nell’immaginario collettivo (guardaspalle, cowboy ingenui, culturisti, gorilla), ma ora è geneticamente mutato con l’avanzarsi sul proscenio degli uomini-oggetto, dei ragazzi-immagine, di quella folta fauna di palestrati che hanno le stesse identiche ambizioni delle loro colleghe. Dal 2020 la trasmissione si è intitolata La pupa e il secchione. E viceversa (nell’attuale edizione 2021 le pupe sono cinque e i pupi erano tre, più un quarto entrato in corsa). Unisex è rimasta l’abitudine bizzarra di chiamare gli istruiti, maschi e femmine, col cognome e i supposti ignoranti, maschi e femmine, col nome di battesimo; forse perché negli appelli a scuola ci si conosceva per cognome, o postulando che gli ignoranti vengano sentiti dal pubblico come più familiari. Il vero ostacolo però, quello insormontabile, è legato al nuovo modo di considerare il corpo femminile.

I canoni della bellezza femminile, si sa, sono cambiati molte volte dall’antica Grecia ai giorni nostri: la Venere Callipigia, le dame angelicate del gotico, le belle di Rubens e Twiggy – ma sempre, accanto, c’era l’idea contrastiva della donna brutta, dalla leggenda su Saffo alla Fosca di Tarchetti, per non parlare dei comici (la signorina Silvani di fantozziana memoria). Ora la bruttezza è scomparsa dal novero del dicibile quando si parla di una donna: se una ragazza è bassa, sovrappeso e con un naso lungo e storto (pardon, “importante”), si ritiene giusto dire che “è bella in un modo tutto suo particolare”, perché la bellezza viene da dentro eccetera. Se no, scatta l’accusa di body shaming. In queste condizioni, qualunque persona dotata di buonsenso avrebbe concluso che non era proprio il caso di riesumare il programma, se il contesto è sfavorevole se ne prende atto, stop.

Ma la struttura dei palinsesti televisivi ha ragioni che il buonsenso non conosce, e quindi i poveri autori si sono trovati legati braccia e gambe a due carri diretti in direzioni opposte: titillare i residui di maschilismo ma contemporaneamente appoggiare il mainstream progressista.

Ne è venuto fuori un ircocervo molto interessante, prima di tutto nel casting. Tra le quattro secchione, una sola ha un fisico che un tempo l’avrebbe qualificata come “bruttina”, le altre tre sono piuttosto carucce; e anche tra i secchioni c’è un toscano tutt’altro che fisicamente sgradevole. Viceversa, le pupe hanno alle spalle storie famigliari complicate e addirittura ricordi di essere state bullizzate a scuola. Recuperando una caratteristica del formato originale americano (Beauty and the Geek), si insiste sulle storie patetiche alla Gf Vip, ci sono addirittura le visite dei genitori orgogliosi («esci più tardi che puoi…»).

È in corso un intreccio sentimentale tra il (finto) secchione toscano e la sua pupa, tra un pupo e una pupa c’è stato solo il bacio di una sera, mentre la “bruttina” (sempre tra virgolette, per carità) è corteggiatissima: prima dal suo pupo, con evidente imbarazzo di entrambi, poi da un secchione che le dedica romantiche canzoni. Soprattutto, va in scena l’invidia delle pupe per le secchione: «le stimo perché hanno molta più sicurezza di me» dice una con un fondoschiena da togliere il fiato, e un’altra aggiunge, pentita, «ora capisco che ho sempre dato importanza alle cose sbagliate».

Miryea, la pupa bionda più vicina al modello della nata-ieri, si confronta con la “bruttina” e conclude «hai visto che poi non siamo tanto diverse?»: Vlady Luxuria chiosa soddisfatta che «tra due donne ci può essere solidarietà e non competizione». Luxuria («È diventata pupa dopo essere stata secchiona, ma in realtà pupa lo è sempre stata», dice il conduttore Andrea Pucci facendo slalom tra le preterizioni), Luxuria dicevo appartiene al gruppo degli ospiti speciali, e insieme a Francesca Barra è delegato a trarre una morale che faccia anche della leggerezza una “lezione di vita”.

Ma il vecchio programma preme contro la pelle nuova, del diavolo vestito da chierichetto si vede spuntare la coda. Le pupe vengono riprese in bagno (con schiuma) o sotto la doccia, come supplente arriva Ambra Lombardo in vertiginosa minigonna e siamo subito ai vecchi film con Edwige Fenech e Carmen Villani. Francesca Cipriani, vincitrice dell’edizione 2010 e qui in veste di valletta (o di spumeggiante cronica), porta con entusiasmo la sua ottava di seno che da anni minaccia di esondare.

Nelle interrogazioni e nelle prove di vario tipo si propongono argomenti già pronti per derive scollacciate (la fecondazione dei mammiferi, l’impollinazione, «mi dica il significato di introiettare») sperando che pupe e pupi ci caschino; Giorgio Mastrota, giudice in una gara per telepromuovere la crema dell’amore, raccomanda apertamente «spingete, spingete sui doppi sensi».

Kitsch impegnato

La risata chiede la sua parte e il politicamente corretto subisce strane torsioni: si fa il gioco di scambiarsi i vestiti tra uomini e donne, perché la moda ormai è genderless e per tirare fuori l’altro genere nascosto in ciascuno, ma quel che ne risulta è un campionario di stereotipi della più vieta maschilità e femminilità, sia pure rovesciati.

La sagra delle castronerie è un ingrediente che non può mancare: fa ridere lo sbarco sulla luna attribuito a Louis Armstrong, il Muro che divideva Berlino nord da Berlino sud; fa ridere la maggiorata che si scusa «non mi sento molto afferrata in questa materia», tanto quanto il panettiere-spogliarellista che alla sua secchiona, laureata in ingegneria idraulica, risponde «io ciò un fratello che fa l’idraulico».

Allora vai con la serietà che tiri dall’altra parte. Facciamogli inventare un partito politico ed esporne i valori (però la gara, ahimé, la vince il “partito della pagnotta”), facciamoli parlare di argomenti sostanziosi: i migranti, il fenomeno dei transgender, il futuro, la gentilezza. Qualcuno è abbastanza sincero, qualcuno fa retorica paracula, vince sempre chi si commuove e sul palco trattiene a stento le lacrime, anzi meglio se non le trattiene. Italia, terra di piagnucoloni.

Alcuni di questi ragazzi e ragazze sono irrimediabilmente simpatici: da Gianluca, modello napoletano fumantino e dal cuore d’oro, alla bruttina (scusate, ho dimenticato le virgolette) che ha imparato a sorridere con timidezza eroica; da Marini, bassetto cinico e geloso, a Miryea convinta che «essere felici sia la soluzione».

Il disperato equilibrismo degli autori può contare su un buon materiale umano, ma la scommessa di inventarsi un kitsch impegnato non si può dire vinta; resta una trasmissione sconclusionata, incerta tra game e reality, tra sentimentalismo e volgarità, una zuppa pasticciata su cui Andrea Pucci cerca di galleggiare con qualche buona battuta. Succede, quando i mutamenti ideologici sono velleitari e superficiali, succede che le opere rimangano a metà del salto. Molti direbbero semplicemente che il programma è orrendo, ma è qualcosa di più che orrendo: è sintomatico.

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