Ho sempre pensato che le spazzole fossero più da femmina, e i pettini da maschio. Forse è il genere grammaticale delle due parole a influenzarmi, forse la forma degli oggetti: setole contro denti, morbidezza contro acuminato rigore, densità indistinta contro file marcate di individui sull’attenti.

In ogni caso, evidentemente, sono in errore: sfogliando cataloghi rinascimentali e tardo-moderni, da Botticelli a Renoir, sono sempre solo le donne a pettinarsi, qualsiasi sia lo strumento che usano. Lo stesso, se non sbaglio, avviene nella poesia.

Ho però il sospetto che la questione sia puramente performativa: un uomo che si cura, che si fa bello, non è un soggetto da esplorare nelle immagini che costruiscono l’idea che abbiamo dei nostri costumi, delle nostre identità. Questa settimana ho dunque provato a interrogare il mio iniziale malinteso, e a dargli sostanza in un pezzo che trovate qui su Domani.

Più che di pettine, devo ammetterlo, ho forse scritto di capelli, perché li ho persi prestissimo e (anche se non lo ammetto) mi mancano. Mi interessava soprattutto riflettere sulla disciplina che ai capelli da maschio mi hanno insegnato a infliggere: prima mio nonno, che mi educava al gentilomismo, poi i bulletti della mia scuola media.

Nell’articolo troverete il filosofo libico Sinesio di Cirene, allievo di Ipazia, e il duca barbaro dei dothraki Khal Drogo; il poeta barocco Giambattista Marino e Robert Mapplethorpe, una cui splendida foto del 1980 è l’unica opera d’arte che mi sia venuta in mente in cui un uomo si passi un pettine tra i capelli.

Ho dimenticato, mi rendo conto in ritardo, di includere una menzione a Fossi figo di Elio e le Storie Tese, che avrebbe fatto il paio con gli Uomini col borsello della settimana scorsa – e mi avrebbe permesso di discutere di Gianni Morandi, che incongruamente piange chiome perdute in quell’immortale rapsodia. Vabbeh, non si può sempre pensare a tutto.

Troverete anche, sia sul sito di Domani che in edicola sabato prossimo, la nuova illustrazione di Didier Falzone, in versioni diverse tra i diversi formati.

Didier ha superato sé stesso con un’elegante allusione botticelliana e una cura commovente per i dettagli: l’omino in farsetto rosso rinascimentale, avvolto in una palandrana da barbiere che sembra quasi da macellaio, ci rivolge uno specchio vagamente inquietante col suo pettine giallo che sporge dal taschino. A un certo punto, intorno ai diciassette anni, ce li avevo proprio così i capelli: riga in mezzo, gonfiezze, lunghezze audaci. Ora che sono calvo, a zero, mi consola la barba, su cui a un certo punto scriverò per Cose da maschi.


Stamane, mentre appunto mi regolavo la barba con la macchinetta, le notizie alla radio alternavano le minacce di una Terza guerra mondiale alla costernazione per il fatto che a uno sciatore di fondo finlandese si sia congelato il pene durante la sua gara alle olimpiadi invernali. A ben vedere, la prima questione non è meno fallica della seconda. È però – mi auguro ne converrete – assai più degna di nota, e mi sconvolge che possa lasciare qualsiasi spazio ai genitali di questo atleta scandinavo, di cui mi pare non dovremmo sapere nulla.

Siamo d’altronde in balia di vetuste virilità spaventose, che si misurano a vicenda e si dimostrano continuamente fragili, aggressive, minacciate. Per fortuna mi ha salvato da questa maschilità novecentesca e per nulla interessante (se non ai poli estremi dell’angoscia esistenziale geopolitica e dell’individuale destino medico di un povero cristo, ambedue fuori misura per i miei poveri strumenti di umanista autoscopico) l’arrivo, nella mia cassetta postale, di un libro appena uscito a inaugurare la nuova collana “unici” dell’editore Einaudi. Si intitola Nonostante tutte e l’ha scritto Filippo Maria Battaglia. Anzi, non l’ha scritto affatto.

Battaglia è un femminista che leggo sempre con curiosità e mi ha stupito ricevere un suo romanzo, giacché pensavo scrivesse solo saggi – consiglio in particolare Stai zitta e va’ in cucina (2015) sul maschilismo, e Ho molti amici gay (2017) sull’omofobia, entrambi editi da Bollati Boringhieri.

Lo stupore era però malriposto, perché Nonostante tutte non è davvero un romanzo – e, come ho detto, Battaglia non lo ha davvero scritto. Io sono appassionatissimo di letteratura senza autore: mi sono arrovellato sulle poesie che Nanni Balestrini, già nei primi anni Sessanta, faceva scrivere automaticamente ad archeologici computer, su quelle che Giulia Niccolai componeva accostando toponimi presi di peso dall’atlante e brani non espunti da documenti criptati emersi dagli scandali della Guerra fredda, sui recenti esperimenti Flarf attraverso cui si generano testi scandagliando la rete in cerca delle più strane chiavi di ricerca adoperate de anonimi utenti su Google.

Mi incanta l’idea di tessere racconti e liriche da un dato ammasso di documenti: di ricombinare gli archivi non in Storia, ma in storie. Battaglia fa una cosa del genere ma, a differenza dei suoi predecessori nel reame un po’ freddo e purista dell’avanguardia influenzata dall’Ècole du regard, al centro della sua operazione c’è una questione politica.

Nonostante tutte si sostanzia delle parole di centodiciannove donne del Novecento, i cui scritti sono custoditi nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Il libro le “salva con nome”, presentandocele tutte come materie prime di un collage da cui il supposto autore si congeda, sparendo dal libro. 

Invece di raccontarci quelle donne, e di restituirle così al mutismo (o all’esistenza per interposto narratore) che la memoria pubblica riserva ai documenti privati in un’apparente polifonia storiografica sempre controllata dagli stessi soggetti, Battaglia ce ne consegna le voci verbatim, come preziosi frammenti di papiri di cui bisogna rispettare con cautela ogni sillaba.

Dopo l’introduzione e l’avvertenza, come dicevo, semplicemente smette di scrivere, e comincia solo a cucire insieme questi frammenti unici, brani di un racconto che nasce dall’arrangiamento, dalla curatela.

Battaglia ha distillato un personaggio di fantasia dai pezzi di testi veri che ha scelto e giustapposto sulle pagine: Nina, una donna straordinariamente autentica che non è mai esistita e che pure è composta da memorie concretissime e vissute, impossibili da inventare.

Ho voluto dedicare la seconda metà della newsletter di questa settimana alla Nina di Filippo Maria Battaglia perché mi ha costretto a spegnere la radio e a immergermi nella sua vita, restituita da ariosi capitoli progressivamente sempre più lucidi. Mi ha fatto pensare ad Adriana Cavarero, una delle nostre maggiori pensatrici femministe, che teorizzava la polifonia a più voci di una Storia capace di evadere dal fallo-logo-centrismo dell’eroica cronaca di guerra o della disamina sedicente oggettiva di documenti ammutoliti, e mi ha fatto pensare alle femministe anglofone che hanno smontato, con Habermas, l’idea di una gerarchia tra la sfera pubblica e quella privata, restituendo al diario e all’epistolario lo statuto pienamente letterario che ci permette oggi di riconsiderare la storia della cultura anche medievale e della prima modernità come una cosa non solo da maschi.

Che un letterario sguardo maschile su un personaggio femminile, su un coacervo di voci femminili, si faccia così radicalmente laterale e di servizio, così puramente animato dalla cura invece che dalla scrittura, è un po’ un miracolo d’invenzione. 

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