Che le apparenze siano faccenda frivola possono pensarlo giusto quelli che hanno avuto la fortuna di essere nati (e cresciuti) conformi, o non hanno avuto il coraggio di essere a pieno sé stessi. Ricordo ancora il regalo chiesto a mio padre per i dodici anni: un paio di pantaloni scozzesi, bianchi e azzurri, ottenuti a fatica durante una vacanza in Liguria.

Tornati a Milano, anzi nella periferia milanese, la prima volta che li indossai e andai a scuola, domandando come mai attirassero tutti quegli sguardi e battute anche da parte degli studenti delle altre classi, un compagno mi disse con convinzione: «Sono da frocio». Quando provai ad approfondire la questione, chiedendo perché, la chiosa fu semplice: «Si vede».

I pantaloni bianchi e azzurri presero così dimora principalmente dietro le ante dell’armadio, e qualcosa di non molto diverso accadde quando il bambino che sono stato chiese bambole al posto di macchinine e robot, smalto sulle unghie invece che parastinchi e ginocchiere, costumi di Jessica Rabbit e Biancaneve, e non di Robin Hood o Peter Pan, in occasione del Carnevale.

«Si vede», disse il mio compagno: ciò che è da maschio e ciò che è da femmina si vede, dunque si vede anche ciò che è da invertiti, ovvero da maschi che falliscono nel performare la loro maschilità. La prospettiva binaria divide in due il mondo, e identifica una contrapposizione di ruolo, ma anche estetica, vestimentaria, le cui violazioni meritano di essere individuate, sanzionate, represse. Con gli sfottò o le minacce, gli insulti o le botte, a seconda dei contesti, a seconda che si sia più o meno fortunati.

Eppure che dalla differenza biologica – differenza che la tradizione blinda e sclerotizza, rendendo invisibili tutte le possibilità altre, come l’intersessualità – debbano discendere vincoli e prescrizioni, bivi fatali e aut aut (persino in fatto di tessuti e colori, indumenti, accessori e gioielli), è qualcosa che il femminismo e gli studi queer ormai da tempo ci insegnano a ritenere discutibile, arbitrario. Un arbitrio per nulla casuale, ma radicato in un sistema di potere preciso, che nega esperimenti ed esplorazioni, dalla culla alla bara, per affermare e tramandare sé stesso nei secoli dei secoli.

Cose da maschi di Alessandro Giammei, da poco in libreria nella collana Opera viva di Einaudi, sceglie di immergersi in questo territorio irto di tensioni, malumori e suscettibilità con un piglio tutto suo, insieme colto e scanzonato. Mettendo insieme Ariosto e Sfera Ebbasta, Star Wars e Mario Schifano, Omero, Asimov e Zerocalcare, il normalista Giammei, che ora insegna Letteratura italiana a Yale, crea una sorta di inventario ermeneutico e cangiante nel quale, unendo autobiografia, critica letteraria, storia materiale e cultura pop, porta sotto gli occhi del lettore venticinque oggetti (prevalentemente oggetti, ma si parla anche di parti del corpo) tradizionalmente considerati da maschi (o vietati ai maschi). Li chiama in causa e ne decostruisce la mitologia, fino a rivelare lo spalancarsi di un campo di possibilità prima invisibili o persino impossibili, nel quale “fluttuare comodo”.

Canottiere, camicie, cravatte, collane, orecchini e pettini, ma anche pistole, tasche e tute: il maschile, scrive Giammei, “non è il contrario del femminile, non è il nemico del femminismo. Il maschile, prima di tutto, è una maschera. Protegge, camuffa e traveste. S’indossa, si applica, come ogni identità”. Avvicinandosi a questi oggetti, a questi miti, la sorpresa in cui il lettore si imbatte è spesso analoga: non è vero che le cose stanno come molti pensano, non è vero quel che ci hanno ripetuto sin dall’età delle fiabe.

Il maschile ha ben poco a che fare col corpo e i genitali, di “naturale” non ha praticamente nulla: guardando da vicino un simbolo, questo rivela dell’altro, persino il suo opposto, e le origini di tanti stereotipi di genere sono spesso recenti, recentissime, come nel caso della gonna come capo destinato alle donne, solo alle donne.

Maschilità balneabile

La maschilità può così farsi più fluida, “balneabile”, scrive Giammei, ovvero spaziosa, accogliente, creativa, meno ostile anche per sé stessa. I maschi possono così iniziare a “vedersi”, a contemplare l’ovvio che ovvio non è, prendendo contatto con i significati impressi sulla loro anatomia e sulla loro psiche, imparando a prendersi cura della loro salute, anche mentale, liberandosi del regime della forza e della lotta che, spesso nel silenzio, li sfianca: «Addestriamo i maschi a corrispondere a strutture plasmanti francamente scomode, brutte, persino mostruose, premiandoli da piccoli quando non si vergognano e sono disgustati dagli abbracci e giustificandoli più tardi quando si comportano da aggressivi intrusi in qualsiasi spazio, come se il miglior uso del mondo fosse davvero la conquista e non la curatela».

La proposta tratteggiata dai quadri visuali e narrativi di Giammei è quella di una rivoluzione senza livore, che si sottrae dal facile polemismo contemporaneo, preferendo sempre la strada del desiderio, della curiosità, del racconto e della bellezza. Per questo devo ammettere mi ha lasciato sorpreso vedere nelle scorse settimane alcuni aspiranti intellettuali nostrani prendere di mira sui social il libro rimpallandosi di bacheca in bacheca le grafiche postate dalla casa editrice per la promozione.

Si trattava in particolare di alcuni passaggi del penultimo capitoli, Nomi, nei quali l’autore condivide le sue perplessità – perplessità intime, sincere, nulla dunque di prescrittivo – circa quella che viene considerata la cosa più normale del mondo: il fatto di scegliere, alla nascita, il nome di un figlio, identificandolo come maschio o femmina.

Nei commenti che ho intercettato era più che evidente la prontezza scomposta di chi – non avendo letto il libro, e direi neppure il capitolo in questione – coglieva la palla al balzo per mettersi sulla difensiva, ribadendo il solito schema “noi contro loro” che oggi si ripresenta su qualsiasi questione. Schema col quale i commentatori fingono o si illudono di interessarsi ad un tema, di fatto promuovendo sé stessi, o almeno sfogando un po’ i nervi. Sono reazioni che colpiscono, perché parlano insieme di pigrizia ed eccitabilità, attaccamento a ciò che si è convinti di sapere e disinteresse verso le digressioni impreviste e magari, chissà, foriere di sorprese o meraviglia.

Il senso di ampiezza

Cose da maschi è un esperimento felice proprio perché si inserisce in questo scenario così teso e contaminato con un tocco personale, intelligente e profondo. Giammei rimette sempre ogni cosa in discussione, interessato – come accade alle pagine 165 e 166 – a vedere i limiti anche del queer stesso, quando rischia di farla un po’ troppo facile: «La metafora del closet innerva lo sguardo alternativo che gettano sul mondo gli studi queer, ma rimane impigliata in questo stesso istinto binario: dentro o fuori».

Il libro di Alessandro Giammei – che è anche romanzo di formazione materiale, con le sue bellissime pagine in cui l’educazione affettiva passa per caschi, pettini, Polly Pocket e cravatte – predilige invece la posizione critica, «appollaiata esattamente dove passa la crisi»: con acume ed entusiasmo da lettore e spettatore libero (più che onnivoro) rivela di preferire l’ambivalenza, lo sconfinare continuo, il limite – o meglio “lo steccato” – come struttura porosa, permeabile, equivoca.

C’è molto da imparare dal metodo con cui è stato immaginato e poi costruito questo fantasioso agglomerato di storie e pensieri sulla mitologia del maschile, perché ci mostra come un tema mainstream possa, se preso di lato, con la giusta dose di creatività e coraggio, mettersi a brillare di luce nuova, ricominciando a pulsare di vitalità intellettuale e stilistica quando sembrava quasi soffocato dagli slogan degli attivisti di Instagram.

È un libro per il quale c’è da essere grati Cose da maschi, per il senso di ampiezza che ispira e per il mondo che custodisce e fa espandere, anche attraverso accostamenti insoliti e cortocircuiti. Proprio oggi che il mondo tende a farsi sempre più piccolo sotto i colpi dello schierarsi e del fronteggiarsi c’è bisogno di libri così, che sanno istituire spericolate e visionarie alleanze tra letteratura e politica, tra il passato e la speranza di un altro futuro. Libri che non dimenticano di pensare, e quindi chiedere a chi legge di pensare, anche quando si discute di questioni in cui allinearsi compatti, con la testa vuota e le mani artigliate, sembrerebbe l’unica cosa da fare.

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