Un giorno di febbraio del 1985, in una cittadina della Louisiana, un ragazzo denuncia alle autorità locali un sacerdote, accusandolo di aver abusato di lui quando aveva dodici anni. Gilbert Gaute, così si chiamava, finisce sotto inchiesta e sui giornali.

Sulle sue oltre 150 vittime si indaga, e soprattutto di tutto questo si scrive e si parla. In una storia secolare di silenzio irrompe la parola, quella della vittima e quella dei media che da allora non smetteranno di dare voce ad altre storie.

Dalla Louisiana al Massachussets, dal Canada al Cile, dall’Australia all’Europa fra Irlanda, Austria, Germania, Francia, Polonia e Spagna, riaffioreranno memorie da ingiunzioni a tacere e vergogna, prendendo corpo in gruppi di attivisti e movimenti d’opinione (significativamente, in Italia questo è accaduto in forme meno eclatanti).

Qui comincia la storia ricostruita da Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia. Peccato o crimine, titolo del libro pubblicato da Laterza, sono le lenti attraverso le quali la chiesa di Roma ha per secoli guardato e quindi giudicato gli abusi compiuti dai propri membri sui minori.

L’applicare queste categorie agli atti, e il continuare a osservarli e giudicarli come tali, ha avuto l’effetto di rendere invisibile chi di quel peccato e di quel crimine è stato vittima: bambini e bambine, ragazzini e ragazzine, che non di rado hanno così perso la vita, e, quando sopravvissuti, sono rimasti privi di voce.

Non creduti – in un lungo tempo in cui la parola era data solo a chi era ritenuto capace di piena ragione, cosa da adulti – o addirittura puniti, perché sospettati di complice seduzione. Oggi, con un termine che ci arriva dalla medicina psichiatrica ottocentesca, quel peccato e crimine si chiama, appunto, pedofilia.

Risalire ai modi più antichi di intenderla, fra morale e diritto, e di sanzionarla (o più spesso, di non sanzionarla), sono operazioni necessarie per spiegare la crepa che, dalla fine del Novecento, si è aperta fra le gerarchie della chiesa e l’opinione pubblica: reticenti le prime e sconcertata la seconda di fronte all’emergere, da un rigurgito di casi isolati divenuto valanga, di violenze fino ad allora taciute.

Ma bisogna anche guardare al di fuori della storia della chiesa e osservare il prendere forma nella società civile di sensibilità nuove, attente ai diritti dell’individuo dai suoi primi giorni di vita, e all’ascolto della parola di chi ha subìto violenze, siano esse motivate dall’etnia, dalla religione o dal genere. È il “paradigma vittimale”, oggi, a muovere rivendicazioni politiche che fino alla metà del Novecento erano spinte dalla credenza in un futuro di progresso da realizzare.

L’impulso ora nasce dal trauma: si dà voce alla ferita, si denuncia, si chiede il risarcimento, si combatte.

L’indagine storica

Non c’è polemica nel libro che Benigno e Lavenia dedicano a questa lunga storia, operazione delicata per scivolosità del tema, lacunosità dei documenti e parzialità delle ricostruzioni disponibili. Non interessa attaccare, nutrire una retorica dello scandalo, alimentare tesi essenzialiste che saldino stato clericale e pedofilia (una pratica diffusa nei contesti più vari, a partire dalla famiglia). Interessa capire.

Così la storia, disciplina della giusta distanza applicata a questioni che ci toccano nel profondo, mette chi legge nella condizione di attraversare lucidamente questa vicenda enorme per crudeltà e, al primo sguardo, incomprensibilità. Perché queste efferatezze ripetute? E perché la chiesa non si è presa cura dei più indifesi, proteggendo invece i loro carnefici? L’indagine storica non può forse spiegare il motore profondo dell’azione aberrata, materia per perizie mediche e legali. Ma può fare molto nell’illuminare le circostanze che hanno reso possibile il loro impunito replicarsi all’interno della chiesa: un intreccio fra mentalità e organizzazione dell’istituzione, fra dottrina e disciplina.

La prima parte del libro ripercorre gli eventi, dagli anni Ottanta a oggi, fra cronache giornalistiche, processi giudiziari, dichiarazioni ufficiali della chiesa. Un impressionante susseguirsi di casi di abusi si snoda con uno schema simile: autorità che sapevano e che non hanno agito.

Le ragioni dell’apparente ripetersi dell’uguale sono i modi di governo di una chiesa organizzata per vertici e diocesi, compatta nei principi della correzione fraterna dei propri membri («Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello», Matteo 18, 15), della segretezza del peccato confessato e della priorità di tutela dell’onore.

Cose d’altri tempi, idee astratte, si direbbe, ma capaci di impatto sulle vite passate e presenti di migliaia di persone.

Il loro farsi cosa concreta nel tempo lungo della storia emerge dalla seconda parte del volume, che ripercorre la morale cristiana della sessualità nella sua elaborazione, dall’Antico Testamento allo snodo della Controriforma, infine alla sua crisi alle soglie della modernità, e nel suo applicarsi nei tribunali della fede.

Così si è intessuta una scientia sexualis che distingue lecito e illecito e, soprattutto clero e popolo, assegnando al primo una necessaria separatezza, marcata dall’astinenza sessuale.

Solo governando la propria carne si può governare il gregge.

Le sanzioni contro chi si mescola con le donne si moltiplicano col pieno Medioevo, anche per evitare che la generazione di figli di preti disperda i beni di una chiesa che si struttura come istituzione spirituale e temporale.

I rapporti con i ragazzini, meno gravi per le conseguenze materiali, sono valutati su un altro piano: perché avvengono non con minori (una soglia che un tempo si situava intorno ai dodici anni) ma con persone dello stesso sesso. È il peccato più grave non perché viola chi lo subisce, ma perché infrange l’ordine di natura e macchia l’anima e il corpo di chi lo compie.

Per le inquisizioni di Spagna e Portogallo è un crimine di eresia, punibile con la massima pena. E se avviene all’interno del sacramento della penitenza, durante la confessione, è un crimine di sollicitatio ad turpia, che induce a compiere atti “turpi” perché antepongono il piacere alla ragione.

Questo è vergognoso per ogni essere umano ma a maggior ragione per chi, coperto dal sacramento dell’ordine, è tenuto a un controllo esemplare, agli occhi di se stesso e soprattutto degli altri.

L’onore, infatti, si perde solo se c’è un pubblico. E l’onore intaccato del singolo compromette anche quello della comunità cui appartiene.

Ecco perché nella prassi non si condanna il sacerdote colpevole, ma lo si ammonisce con discrezione cambiandogli tutt’al più di sede. Questo fecero molti vescovi, i meno noti (per citare i primi casi statunitensi) Fitzgerald, Penny, O’Connell, e il più noto Bernard Francis Law di Boston, che all’accusa di aver coperto decine di sacerdoti abusanti (il famoso “caso Spotlight”) avrebbe presentato due volte le dimissioni al pontefice allora in carica Giovanni Paolo II.

Il pontificato di Wojtyla

Furono accolte solo la seconda volta, motivate da ragioni di salute. L’ombra di una mancata linea dura contro la pedofilia clericale si è stesa così sul pontificato di Wojtyla. Lo definì il «peccato fra i più gravi contro il sesto comandamento», affidandone la competenza alla Congregazione per la dottrina della fede per una disciplina più efficace.

Ma tanto nelle dichiarazioni ufficiali quanto nelle prassi mancò di mettere al centro ciò che a fedeli e laici sembrava ormai prioritario: che venisse fatta una giustizia commisurata allo scempio commesso, fuori dall’esclusività della giurisdizione ecclesiastica.

Il suo successore avrebbe lamentato la cattiva influenza di un tempo edonista, mal sopportato da un clero votato alla separatezza in un mondo che incita al consumo sessuale.

Proprio questa separatezza, intesa come cultura dell’autorità che giustifica l’abuso, è additata ora da Bergoglio a responsabile dei crimini sessuali sugli indifesi.

Ma continua ad aleggiare, nelle retoriche ufficiali, quell’antica associazione fra pedofilia e omosessualità, unite dal loro essere “contro natura”: una categoria che indica ancora come priorità la tutela dell’ordine oggettivo delle cose, di cui Dio è artefice e custode, e non i diritti inviolabili degli individui.

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