In Il gusto delle cose il regista vietnamita cresciuto in Francia Trần Anh Hùng rappresenta la miglior unione possibile tra l’idea asiatica di una pratica come forma di purificazione e il cibo occidentale
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Tran Anh Hung è fuggito dal Vietnam con la sua famiglia quando aveva 12 anni, a seguito della caduta di Saigon.
In Francia è diventato un regista e nel 1995, ha vinto il Leone d’Oro a Venezia con Cyclo.
È un vietnamita francesizzato, il simbolo della contaminazione tra culture, e ha girato un film, da poco disponibile su Sky, Now e sulle principali piattaforme di noleggio, che rappresenta la cucina come un gesto e un’attività a metà tra la trascendenza spirituale asiatica e il culto della ricerca occidentale.
Si intitola Il gusto delle cose ed è un serio contendente al trono di miglior film di cucina di sempre.
Il film
È l’adattamento molto libero del romanzo La Vie et la passion de Dodin-Bouffant Gourmet, di Marcel Rouff, la storia di un gourmand dell’Ottocento francese che, nel suo château, ricerca ingredienti, idea ricette e le fa realizzare alla cuoca che lavora con lui da vent’anni.
I due hanno un rapporto simile a quello che esiste tra hardware e software, o, per dirla in maniera più classica, tra cervello e mani: uno di sostegno e dipendenza reciproca per la loro arte, e anche un rapporto romantico, libero (non sono sposati anche se lui lo vorrebbe) e passionale.
A interpretarli sono Benoît Magimel e Juliette Binoche, con una rara economia di gesti ed espressioni nel mostrare il loro legame e con l’evidente consapevolezza di essere secondari in questo film in cui i protagonisti sono i piatti.
La loro è una storia di contorno, che seguiamo nelle pause tra una preparazione e l’altra.
Non è difficile immaginare che la passione tra i due sia un’estensione di quella che vediamo nella preparazione dei piatti.
Lo si capisce subito, quando il film passa i primi 40 minuti solo nel mostrare la preparazione di una ricetta. Ed è l’opposto della noia.
A differenza di qualsiasi idea di video-ricetta a cui siamo abituati, in cui l’ellissi è la cosa più importante e i gesti sono minimizzati per dare spazio al tutorial, alla spiegazione e all’illustrazione del «come fare» e alle rassicurazioni che tutto è facile e fattibile, queste sono ricette lunghe ed elaborate, mostrate come qualcosa di faticoso e tecnico.
Ogni preparazione che si vede nel film è una vera ricetta dell’Ottocento, ricostruita da uno storico e poi demolita e ridisegnata dallo chef stellato Pierre Gagnaire, che Tran Anh Hung ha usato come consulente.
Gagnaire ha cucinato tutto il menù del film cinque volte per il regista, che lo ha osservato prepararlo e, con lui, ha studiato come metterlo in scena.
La sensualità nella cucina
Il gusto delle cose contiene il segreto della parte affascinante e sensuale della cucina (se esiste): il feticismo dei pollici bagnati che spingono ripieni, l’ammirazione della disposizione delle carcasse in una casseruola o del sugo raccolto per bagnare la carne.
E ancora pentoloni giganti di rame, fiamme alimentate dal fuoco della legna, intestini sventrati, verdure appena cotte che non sembrano verdure moderne (cioè affusolate, dalla buona forma, belle a vedersi), ma sono storte e macchiate, e moltissimi vini che bagnano gli alimenti. Tecniche grossolane per preparazioni delicate.
E tantissima forza fisica per muovere quelle pentole e spremere quelle grosse sac à poche. Tutto quello che sarebbe terribile dover fare nella realtà ma che, visto attraverso la lente estetizzante del cinema, diventa sinonimo di un rapporto completamente diverso con gli elementi.
La rappresentazione della cucina è qui stretta in un connubio molto fecondo di falso e reale. Sono estremamente realistiche le preparazioni d’epoca, disegnate e coreografate da Gagnaire e poi eseguite dagli attori con il costante supporto di Michel Nave, assistente di Gagnaire che era sempre sul set.
Questa è una scelta poco frequente: di solito il cibo nei film, nelle serie e nelle pubblicità non è reale, è finto, perché deve reggere i tempi lunghi della realizzazione delle scene e perché deve assolvere a una funzione estetica, deve essere bello e raccontare qualcosa.
Per questo spesso al posto del latte si usa la colla (più bianca, più cremosa); al posto delle salse di carne, si usa l’olio motore (più lucido) o al posto della crema si usa la schiuma da barba (più voluminosa e morbida). Ma non in questo caso: qui anche il cibo è vero, preparato davvero e cucinato sul serio (poi portato a casa da tutta la troupe a ogni fine giornata).
E poi c’è il falso dello stile trasognato. Tutto Il gusto delle cose si svolge in questo château di campagna, tra preparazioni giornaliere, cene serali e visite nelle camere private di notte.
È la storia di due persone che si dicono tutto quello che conta attraverso il cibo scelto e preparato, quindi ogni gesto ha un valore simbolico che la luce del sole inquadra con una sorta di animismo.
Come se ogni cosa avesse un’anima, come se la cucina avvenisse non nelle cucine ma in mezzo a un prato.
Uno dei primi titoli del film, quando era in lavorazione, era Le Pot-Au-Feu (poi diventato La Passion de Dodin Bouffant, che è il nome del gourmand protagonista), perché al centro di una delle scene cruciali c’è proprio la preparazione del pot-au-feu, un bollito contadino tipico del nord della Francia dalla cottura lunga.
Come avviene anche nel film d’animazione Ratatouille con la ratatouille, il piatto è l’apice di tutto quello che il film vuole dire, una preparazione lunga e accurata, metodica e piena di sentimento, che porta a compimento sia la relazione tra i protagonisti sia il rapporto che gli spettatori hanno intessuto con la cucina di questo film.
C’è ovviamente dietro tutto questo l’ombra di una mitologia che la cucina si porta dietro da molto tempo: quella della sensualità del piacere di mangiare e di preparare.
Non è food porn come lo intendiamo oggi; non c’è il gusto pornografico dell’inquadratura ravvicinata o dell’esagerata esposizione delle materie prime o delle preparazioni, ma è food porn in un senso più classico, cioè la sostituzione dell’atto sessuale con la manipolazione degli ingredienti.
Anche per questo Il gusto delle cose si presenta come un film vecchio stampo, perché la prospettiva che adotta verso lo slow cooking, verso il rapporto con il cibo e ciò di cui possa essere metafora è quella più tradizionale.
Ideale asiatico
E anche l’idea asiatica di cucina, svuotata delle sue preparazioni tradizionali e applicata invece a quelle occidentali, ne esce rafforzata nelle sue fondamenta.
Là dove la cultura della rappresentazione del cibo in Occidente è finalizzata al piacere (Il pranzo di Babette, La grande abbuffata) e alla succulenta esibizione barocca dell’opulenza dei piatti, dei colori e dell’abbondanza, l’applicazione dell’etica della preparazione asiatica lascia emergere aspetti inediti.
In qualsiasi film occidentale in cui compaiano delle pietanze, l’importante è sempre che siano tante. Sono tanti gli spaghetti di Bombolo o le torte di Ozpetek; è grande anche il boccone di Alberto Sordi. La quantità è cruciale.
Invece, in questo film, in cui tutte le preparazioni sono per molte persone – quindi coinvolgono carcasse intere svuotate, pesci sventrati o pentole grandissime – è sempre più importante il gesto, la fatica e l’idea che questo avvenga da vent’anni ogni giorno.
La continuità di una pratica portata avanti da alcune persone che, come monaci, sanno che fare le cose in un certo modo è in sé una pratica che eleva lo spirito.
Non migliorarsi e tendere all’eccellenza in una competizione con gli altri, ma purificarsi attraverso il gesto e il tempo. Il gusto delle cose fa un lavoro pienamente artistico sulla rappresentazione idealizzata dell’elevazione dello spirito: fare una cosa sola per tutta la vita, fino a farla così bene da trasformarla in arte.
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