A che ora è il crollo del capitalismo? Come gli antichi cristiani in attesa della seconda venuta di Cristo, anche i marxisti a un certo punto si sono stufati di attendere: così negli ultimi anni dell’Ottocento, constatando che le previsioni del filosofo di Treviri tardavano ad avverarsi, e addirittura che la condizione operaia migliorava poco a poco, alcuni di loro decisero di liquidare il cosiddetto socialismo scientifico, preferendo alla prospettiva rivoluzionaria un approccio gradualista, di riforma in riforma. 1889 prefigurava 1989.

Del duro dibattito che si scatenò, e in mezzo ai fiumi d’inchiostro che scorsero, oggi ricordiamo soprattutto il pamphlet di una militante polacca ventisettenne, intitolato Riforma sociale o rivoluzione? Il suo nome era Rosa Luxemburg e al programma socialdemocratico opponeva la certezza che il crollo del capitalismo non fosse tanto un destino ineluttabile quanto una tendenza sempre presente, un po’ come la forza di gravità nello spazio fisico. Se le previsioni di Marx non si erano avverate, era perché a quella tendenza si erano opposte delle controtendenze.

Per colpa dei “competenti”

I festeggiamenti per i 150 anni della nascita di Rosa “la Rossa”, il 5 marzo 1871, hanno ribadito il posto preponderante preso dal mito rispetto alla sua produzione intellettuale. È comprensibile, poiché il suo destino fu eccezionale, la sua dedizione alla causa rivoluzionaria tenacissima e la sua morte un vero e proprio martirio.

In un’epoca scissa tra il riformismo socialdemocratico, le sirene del leninismo e le ambiguità del sindacalismo soreliano, la fondatrice della Lega spartachista offriva – al grido di “socialismo o barbarie” – un modello di lotta alternativo, che ispirerà soprattutto la sinistra antitotalitaria. Oggi viene naturalmente celebrata anche come icona femminile, se non precisamente femminista. Sfortunatamente il culto ha finito per oscurare il fatto che Luxemburg fu anche una delle teoriche marxiste più originali del Novecento, primato tanto più notevole che si faceva strada in un mondo prevalentemente maschile.

I “competenti”, li chiamava lei, tra virgolette: ovvero i cattedratici marxisti che avevano sottoposto la sua grande opera del 1913, L’accumulazione del capitale, a un fuoco di fila di critiche impietose. La sua colpa? Aver opposto alle revisioni “da destra” della teoria di Marx, che difendevano una prospettiva riformista, una revisione “da sinistra” che annunciava la catastrofe della guerra come inevitabile conseguenza delle tendenze espansionistiche del capitalismo.

Proprio in questi giorni PGreco ripubblica quel libro fondamentale nella traduzione di Bruno Maffi, affiancando alla riproduzione anastatica della classica edizione Einaudi un’illuminante prefazione inedita di Maria Turchetto. Il contributo di Luxemburg è di aver compreso il legame ineluttabile tra capitalismo e imperialismo, come se la forza profonda che muove la storia non fosse più la lotta di classe bensì la spinta all’espansione che sorge all’interno di ogni spazio economico. Secondo la pensatrice marxista la contraddizione strutturale tra la produttività industriale (sempre eccedente) e la capacità di consumo (necessariamente limitata) spinge il capitale, e quindi gli stati, a cercare sempre nuovi mercati, entrando in conflitto tra loro o colonizzando territori lontani.

È proprio per non crollare, o perlomeno per rimandare il crollo, che il capitalismo si espande sul globo, divorando tutte quelle porzioni di mondo che ancora gli sfuggono. Gli straordinari successi del riformismo di fine Ottocento, dunque, non erano segnali di una definitiva stabilizzazione del sistema bensì le conseguenze di una recente fase di espansione imperialista. Le contraddizioni erano ancora tutte lì. Sulla base di questo assunto era possibile prevedere tre cose ben precise: sul breve termine, ulteriori spinte espansive di natura militare; sul medio termine, un apparente miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia; sul lungo termine, un esaurimento dei margini di espansione, che avrebbe presto o tardi confrontato il sistema ai suoi limiti strutturali. Da una finestra del 1913, Rosa Luxemburg aveva già visto tutto il Novecento.

Non esiste nessuna società capitalistica isolata, né potrebbe sussistere. C’è sempre un negativo che deve essere sfruttato e assorbito, che si tratti di una popolazione lontanissima o delle innumerevoli sacche di lavoro nascosto e sottopagato da sfruttare, come per lungo tempo (e in parte ancora oggi) quello femminile. La politica e l’economia devono essere concepite come Weltpolitik e Weltökonomie, politica-mondo ed economia-mondo. Con ciò Luxemburg fu non solo la prima teorica della globalizzazione, ma l’ispiratrice di un’intera generazione di studiosi che a partire dagli anni Sessanta avrebbe messo in evidenza la dialettica tra sviluppo e sottosviluppo.

Gli autori che prima di lei avevano avuto un’intuizione simile si contano sulle dita di una mano. “Chacun doit grandir ou mourir”, bisogna crescere o morire, scriveva un oscuro studioso americano di nome Edward Van Dyke Robinson in un articolo del 1900 sui rapporti tra guerra ed economia. Secondo lui era la legge universale dei rendimenti decrescenti a muovere il mondo. Prendendo spunto da Robinson, due anni dopo il più celebre J. A. Hobson dedicò un intero libro alle forze economiche profonde che spingono gli stati a espandersi per compensare le proprie tendenze auto-degenerative. Sia Luxemburg che Lenin dovranno molto alle sue analisi, pur rifiutandone la pars construens socialdemocratica che anticipava Keynes.

La fede per la lotta

A che ora è il crollo del capitalismo, allora? Proprio ora, in ogni momento, ovunque. Individuare la tendenza non serve tanto a prevedere come e quando effettivamente crollerà, a mo’ di profezia escatologica, quanto semmai a spiegare le innumerevoli controtendenze che evitano che questo accada: dall’aumento delle scale di produzione alla compressione dei salari, dall’aumento del grado di pianificazione alle guerre.

L’aspro dibattito tra Luxemburg e i socialdemocratici portava in fondo soprattutto sul “tempo che resta” prima della rivoluzione, sul “tempo guadagnato” dal sistema capitalistico e sul costo sempre più alto di questa proroga (oggi lo sappiamo: ineguaglianze, inquinamento, frustrazione). D’altra parte, per citare Keynes, sul lungo termine siamo tutti morti, e non fanno eccezione le civiltà e i modi di produzione — forse bisogna semplicemente godersela finché dura. I revisionisti, nel 1889 come nel 1989, avevano buone ragioni per sostenere che il capitalismo aveva trovato un modo di coordinare più efficacemente le forze produttive. Ed è comprensibile che si stupissero di fronte all’ascesa di un’ampia classe media, contrariamente alla profezia di Marx sull’immiserimento crescente del proletariato. Negli anni dopo la svolta revisionista della prima socialdemocrazia, l’economia europea venne colpita da varie crisi, e tutte queste crisi culminarono in una crisi più grande, ovvero la grande guerra inter-imperialista del 1914, e a questa seguì un’altra terribile crisi finanziaria e un’altra guerra mondiale, come a confermare le teorie luxemburghiane; finché poi non si aprì un trentennio di crescita fenomenale in tutto il mondo, come a confutarle. Quel che è certo è che il collasso non assomiglia a un grande patatrac (i tedeschi usano l'onomatopea Kladderadatsch) con luci e raggi laser.

In fondo le teorie sono pura materia di speculazione e bisogna scegliere, come in borsa, tra “hold” e “sell” al momento giusto. Che fare allora quando la tua teoria appare definitivamente confutata per dieci, venti o cinquant’anni? Forse resta soltanto la fede. E Rosa Luxemburg ne ebbe. Ebbe così tanta fede che continuò a scrivere e a lottare.

Un secolo dopo, ecco che torna più attuale che mai. Chi ha conservato quelle azioni, pure quando il loro valore era sceso sotto lo zero, ora si trova in tasca un bel capitale di chiavi di lettura per capire il mondo.

Nel gennaio del 1919 la rivolta spartachista fu soffocata nel sangue. Alla luce di quello che avvenne solo un decennio più tardi in Germania, non bisogna essere degli estremisti per ritenere che la difesa della Repubblica di Weimar non valesse le vite che è costata, e che in quell’inverno fu sprecata un’occasione epocale per imprimere alla storia un senso differente.

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