Dopo il successo del primo Wonder Woman di quattro anni fa, arriva sulle piattaforme digitali italiane il seguito, Wonder Woman 84, che conferma come il cinema di intrattenimento, in questi ultimi anni, abbia deciso di connettersi sempre di più a tematiche politiche e sociali. Futuri distopici e dittatoriali, povertà, anarchia, classismo, discriminazione, sono il cardine narrativo di saghe di grande successo come quelle di Hunger Games, Divergent, Maze Runner, The Purge, di molti film d’animazione e naturalmente dei cinecomic. Tutti accomunati dal mostrare la decadenza della società capitalistica occidentale a un pubblico giovanile che quegli anni non li ha vissuti ma questi film li guarda.

La regista Patty Jenkins sceglie di ambientare questo secondo film nel 1984, nel pieno cioè dell’era della Reaganomics, tra yuppies, pop art e consumismo sfrenato. Un consumismo che ha come simbolo una fantomatica Pietra dei desideri in grado di esaudire ogni fantasia di chi la possiede e che porterà la protagonista a scontrarsi prima con lo spregiudicato uomo d’affari Maxwell Lord (Pedro Pascal) e poi con l’apparentemente insicura e timida archeologa Minerva (Kristen Wiig). Il tutto mentre assistiamo alla sorprendente ricomparsa della dolce metà della protagonista: quel Steve Trevor (Chris Pine) che nel film precedente era stato dato per morto.

Opposte femminilità

Wonder Woman 84 non è un cinecomic molto riuscito nella componente action. Gli effetti visivi sono alquanto poveri, la regia non particolarmente ispirata e Gal Gadot si fa rubare la scena dalla cattiva Wiig ogni volta. Eppure il film continua in modo coerente ed efficace il nuovo corso della narrativa d’intrattenimento, con la dimensione centrale di eroine al femminile, in lotta non tanto contro nemesi variopinte ed eccentriche, quanto piuttosto con una società che da quel decennio basato su diseguaglianza e machismo non si è mai staccata del tutto.

Ciò che balza all’occhio in Wonder Woman 84, è la spregiudicatezza con cui la Jenkins attacca gran parte degli stereotipi (soprattutto cinematografici) degli anni Ottanta. La Wonder Woman di Gal Gadot è una donna forte, individualista, indipendente, molto più strutturata e consapevole di tante altre eroine. Elegante ma senza mai risultare kitsch, ha la propria nemesi in Minerva. Invidiosa, con una bassissima autostima, condizionata dal culto del consenso sociale e dell’apparire, Minerva è ossessionata dall’essere diversa da ciò che è. Finisce quindi logicamente per omologarsi a un credo totalmente arrivista ed egoriferito, basato sul profitto e il potere.

La sua trasformazione da brutto anatroccolo a fascinosa principessa consumista, distrugge il cliché delle Cenerentole cinematografiche, ci rivela la natura intimamente maschilista e succube delle eroine al femminile viste in quegli anni in cult come Dirty Dancing o Flashdance: la donna che diventa vincente solo quando sexy e legata a un maschio alfa. Gli anni Ottanta sono stati del resto il decennio del power dress al femminile, nonché di una disgregazione della militanza femminista, in virtù dell’emergere di differenze di classe, culturali e politiche profonde.

Il decennio delle illusioni

Minerva prende dalla televisione tutta l’ideologia che le serve. Da quella televisione spunta infatti Maxwell Lord, affarista e petroliere, decostruzione dei simboli dell’avidità anni Ottanta come il perfido Gordon Gekko di Michael Douglas in Wall Street, o il Leonardo DiCaprio visto in Wolf of Wall Street.

Maxwell Lord è però collegato anche al presente, a serie tv come Billions e Succession che ci hanno mostrato la natura corruttrice del potere finanziario dei nostri giorni, che non dorme mai e trova sempre nuovi adepti. «La vita è bella, ma può essere migliore» è lo slogan, di questo affarista che sembra un incrocio tra Donald Trump e Silvio Berlusconi. Dell’ex inquilino della Casa Bianca ha la folta chioma bionda, l’ostentazione, il gigantismo ottimista e truffaldino, nonché il sopravvalutarsi. Con il Cavaliere di Arcore ha in comune il diventare una sorta di pubblicità ininterrotta, l’offrire un sogno personalizzato, seducente e catodico. Impossibile non pensare a lui, all’anchorman supremo, che ha fatto durare in Italia gli anni Ottanta per quasi trent’anni, promettendo ogni irreale desiderio ai suoi telespettatori-elettori.

È il nuovo modo in cui il cinema racconta il passato agli spettatori giovani. Così come mostrato in Hunger Games, Divergent, nel mondo colorato di Zootropolis, o in una serie tv di culto come Mad Men, anche in Wonder Woman 84 la civiltà è verticistica, solo apparentemente meritocratica. Le classi sociali, i ruoli, sono ben definiti, il sistema premia gli individualisti, gli opportunisti. Ronald Reagan, con il suo regno fatto di sogni cinematografici machisti, di corpi perfetti e sensuali, di lusso sfrenato, domina ogni scena.

Il “laissez faire” dall’economico, con Maxwell Lord, si impadronisce della dimensione esistenziale, prende energia vitale dal suo pubblico, dalla massa emarginata, sfrutta gli istinti più bassi e primordiali per prolungare la propria esistenza.

E se in altri prodotti di successo di questi anni c’era una rivolta finale, qui no. Quello che si produce è piuttosto l’anarchia, il crollo della società, il corto circuito di un sistema in cui non è possibile che tutti siano vincenti come promesso. Il pericolo viene scongiurato da un appello messianico dell’eroina che, sfondando la quarta parete, chiede anche al pubblico di rinunciare all’avidità in nome del bene comune. Vi è chi (come The Indipendent) vi ha visto un messaggio di grande speranza per il futuro. Di veri cattivi in realtà non ve ne sarebbero, quanto piuttosto anime perse, che aspettano solo di essere salvate.

Vi è quindi un ritorno all’ottimismo americano? No. Il monologo finale più che offrire una soluzione, suona come un disperato grido d’aiuto. Palese la sferzante critica all’America, alla sua fede incrollabile nell’eccezionalità dei singoli come fattore determinante e all’impossibilità di una rivoluzione. Questo è un cinecomic che ci parla della fine dell’american dream, di quell’entusiasmo incondizionato, che da quegli anni Ottanta non se n’è più voluto andare, anche quando un po’ di realismo e autocritica sarebbero stati più opportuni.

 

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