In tutti i luoghi laddove si esercita o cerca il potere, l’abbigliamento diviene un linguaggio politico. Il potere politico veste un proprio “abito” riconoscibile, una vera uniforme. Se i rappresentanti del popolo, nell’esercizio delle loro funzioni, adottano un codice vestimentario, come attori del campo politico essi usano l’abbigliamento per i loro scopi di apparenza, come oggetto mediatico funzionale alla costruzione di una personale immagine.

Gli esempi sono continui, anche in questi giorni in cui ministri, presidenti di regione e sindaci, impegnati nella gestione dell’emergenza alluvionale tra Emilia-Romagna e Marche – con un epicentro drammatico in Romagna – vestono spesso la divisa della Protezione civile. Eppure questo linguaggio politico tramite l’abbigliamento ovvero un guardaroba vestimentario ha una sua peculiare storia.

Sappiamo, grazie allo storico medievale Ernst Kantorowicz, che il re ha due corpi: un corpo terreno e mortale, e un altro, spirituale, che incarna il corpo politico immortale della comunità costituita dal regno. Per comprendere meglio questa idea, ricordiamo la per altro nota copertina dell’edizione originale del Leviatano di Thomas Hobbes, in cui è raffigurato il corpo del sovrano, composto dalla moltitudine dei suoi sudditi nel loro diverso abbigliamento.

Se per Hobbes il sovrano aveva un corpo artificiale che integrava al suo interno il corpo naturale dei sudditi, oggi potremmo dire che ogni leader politico ambisca a legittimare la sua autorevolezza tramite una perseguita rappresentazione delle identità e delle sembianze di una molteplicità di cittadini.

Mussolini

Uno spartiacque rispetto al guardaroba tradizionale dell’uomo politico, si ebbe già nel primo Dopoguerra, nel contesto della violenta demonizzazione dell’avversario. Furono i fascisti a torcere in chiave nazional-patriottica e autoritario il cerimoniale parlamentare liberale, prefigurando già nella primavera del 1924 – le elezioni oggetto della denuncia di Giacomo Matteotti, per la quale egli pagò con la vita – l’avvento anche in Italia, tramite la dittatura mussoliniana, di una eclatante dimensione estetica della politica.

Conquistato il potere, Benito Mussolini subì fortemente il fascino della divisa. Le canoniche copertine illustrate della “Domenica del Corriere” ne testimoniavano l’inclinazione: se nei primi anni egli si abbigliava con il tradizionale abito borghese, in seguito, insieme alle esibizioni in camicia nera o con i frequenti travestimenti secondo le sembianze del popolano lavoratore, le apparizioni pubbliche in divisa militare (dei diversi corpi) divennero sempre più abituali.

Dopo la gerarchizzazione e la militarizzazione dei ruoli politici imposti dal regime fascista, il ritorno a una rispettabilità borghese avrebbe accomunato gli esponenti delle diverse culture presenti nelle istituzioni. Gli esempi sarebbero diversi.

Anche l’epilogo drammatico dell’assassinio di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, assunse un forte significato simbolico proprio in relazione alla messa in scena del corpo e dell’abito della vittima. Ne scrisse allora Miriam Mafai: «Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro che aveva nel giorno del rapimento, un abito blu con camicia bianca a righine, e la cravatta ben annodata» (La Renault rossa in via Caetani, la Repubblica, 10 maggio 1978).

Fu un racconto scandito da diverse metafore cromatiche, nel segno di un dominante e simbolico colore rosso (il sangue della vittima, nonché dell’auto Renault 4, trasformata in una «bara di metallo»), ma anche della purezza del bianco prima della violenza subita (la camicia intonsa, «bianchissimo» il suo collo), del blu tipico per l’abito di un uomo pubblico. Pure del leader comunista Enrico Berlinguer colpivano l’abbigliamento e lo stile dell’uomo.

Così come ne scrisse Giorgio Bocca nell’elogio funebre: «C’è una stupenda fotografia di lui a Mosca, nel ’76, fra Breznev e Suslov: i due sovietici in abiti scuri, il petto coperto da medaglie, i sorrisi ottusi, enigmatici, le facce smorte del potere mummificato e lui in mezzo, in abito grigio, la cravatta male annodata, i capelli ispidi come li disegna Forattini, le spallucce gracili, un passerotto capitato fra due mastini» (Ciao ciao Enrico eri un uomo vero, la Repubblica», 9 giugno 1984).

Marco Pannella

Dissonante provocatorio fu invece lo stile vestimentario del leader radicale Marco Pannella, nella continua messa in scena del suo colorato «partito-medium». Prima di qualsiasi altro leader dell’Italia repubblicana, Pannella mise la propria figura al servizio di una irrituale comunicazione politica, riproponendo negli anni della televisione di massa l’uso del corpo e dell’abbigliamento (del travestimento) come rappresentazione simbolica ora della vitalità della partecipazione politica ora della vittima del potere.

Si potrebbe dire quindi del segretario socialista Bettino Craxi, artefice di una decisa accelerazione verso la leaderizzazione della politica. «Sono gli anni in cui – è stato scritto – per strada si vedono manifesti con le grandi foto di Craxi in camicia bianca, senza più la giacca e la cravatta, e con i garofani rossi in mano, manifesti pensati per essere visti dalle macchine e quindi di dimensioni enormi».

Eppure la fuoriuscita dai tradizionali modelli dell’“abito politico” repubblicano si ebbe solo dopo, quando la crisi di legittimazione dei partiti politici e dei suoi leader assunse le forme e i linguaggi propri dell’antipolitica e della demagogia populista, nell’emersione di figure volutamente distanti dai canoni e nella rincorsa continua verso tutto ciò che poteva alludere a duna ritrovata vicinanza con i cittadini-elettori e clienti del mercato politico. Fu soprattutto il caso di Silvio Berlusconi, descritto come il «Cavaliere nero in maglione cachemire» ancor prima di «scendere in campo» nel 1994.

Le successive campagne elettorali berlusconiane sancirono l’affermazione di una “democrazia dell’opinione” che avrebbe visto la supremazia della comunicazione sulla propaganda tradizionale di partito. Di qui l’autorappresentazione nei manifesti elettorali del 2001 sia come “presidente imprenditore” (in giacca blu, camicia bianca e cravatta) sia come “presidente operaio” (con maglioncino blu sopra una camicia azzurra); per non dire del “presidente architetto” in occasione delle visite a L’Aquila colpita dal terremoto nell’aprile 2009, quando mise in testa il casco da cantiere, memore di un suo personale e passato immaginario, quando egli, negli anni Settanta dell’edilizia ruggente e di Milano 2, aveva promosso un fortunato progetto di moderna “città-giardino”.

L’uomo del fare

A pensarci bene, fu proprio con Berlusconi che si andò affermando l’immagine del politico inteso a presentarsi come l’“uomo del fare”, trascinando tutti, anche gli oppositori, in una sorta di gara a fare meglio e di più; nella consapevolezza della delegittimazione e a volte persino del discredito correnti nell’opinione pubblica.

Anche oggi, dopo gli anni della pandemia e l’analoga visione di operatori in divisa occuparsi dell’epidemia e della nostra salute, non pare fuori luogo ricondurre alla tendenza a mostrarsi come “uomini” (e donne) e del fare” l’assunzione da parte di amministratori e autorità politiche dell’abito della Protezione civile, con l’intento di presentarsi in modo rassicurante verso le popolazioni colpite.

Senza comunque dimenticare, come sottolineava Roland Barthes, che non è solo il capo d’abbigliamento (la divisa nel nostro caso), ma il modo in cui esso viene indossato e guardato a fare sempre la differenza.

© Riproduzione riservata