Il muscolo rosso della vita è il linguaggio. I più raffinati, subito, voleranno con la mente, son certa, al titolo della canzone – sulla cui copertina occhieggiava il simbolo del Partito Radicale – che nel 1987 cantava un’eletta Ilona, sussurrandoci l’infinito. Tutti gli altri, ortodossi, invece, inizieranno a borbottare uno sull’altro del Cratilo di Platone, d’Aristotele, d’Epicuro, del buon Sant’Agostino, finendo, seppur in bellezza, per farsi Eco.

Il linguaggio m’è sempre garbato parecchio. È la zinna dalla quale tutti s’è poppato e si poppa. Materno. Primordiale. Salvifico. Divino nel suo esser imago dello straordinario patchwork che con bocca, arti e ogni cosa ci si cuce ormai da quasi 500.000 anni. Per Platone il nome non imita mai la forma esteriore, il colore o il suono di una cosa, ma, mediante lettere e sillabe, ne riproduce l’essenza.

Aristotele, nel De interpretatione, ragiona di simbolo. La mente possiede in sé le immagini degli oggetti esterni da cui provengono le affezioni dell'anima (si definisce così ogni fenomeno passivo della coscienza) di cui i suoni della voce sono i simboli. Il simbolo, σύμβολον, da συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere», (composto da σύν «insieme» e βάλλω «gettare»), rimanda alle due metà in cui viene spezzato un oggetto. Ciascuna di esse può, quindi, scambiarsi con l’altra e così, il significato di simbolo ci zompa in grembo: “ciò che sta per qualcos’altro”. Gemma Galgani, icona da trono, è simbolo di “mai una gioia”.

Per Epicuro, nella Lettera a Erodoto l’attività linguistica è equiparata a quella del tossire, dello starnutire, del frignare: gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle impressioni che provano e delle immagini da cui sono colpiti. Il linguaggio primitivo, dunque, costituisce una reazione istintiva all’ambiente. Tommaso Zorzi al grande Fratello Vip riproduce il verso del conato di vomito per nomare tale Sonia Lorenzini.

Per Agostino Santo, nel De doctrina christiana, l’immagine fisica di una parola, sia pronunciata che scritta, è il significante del segno, che rinvia a una res, a una “cosa” che ne è il significato. Il segno verbale non deriva “naturalmente dalla cosa”, ma è frutto di un “accordo”, di un consensus, intimo e profondissimo e non un prodotto naturale. Così democristiano.

C’è chi ritiene che il linguaggio preceda lo sviluppo degli organi preposti all’attività fonatoria, chi, invece, pensa sia conseguente e, anzi, abbia determinato il divenire di essa. Non è la bocca che c’ha dato la favella, ma la voglia di favella che c’ha approntato la bocca. Chissà. Forse, il passaggio allo strumento vocale, il ricorrere alla voce è stato determinato dalla necessità di risolvere problemi che si sono presentati durante lo sviluppo evolutivo (mani impegnate, esseri umani fuori dalla portata visiva e quindi impossibilitati a notare i gesti). Primitivi, quindi, che nello spadellare s’accorgevano mancasse loro del rosmarino e non potevano ovviare al fattaccio se non urlando: «strappami du ciuffi dai vaso sui terrazzo, invece di stare a sedere a grattatti i coglioni davanti a’ i’ televisore!».

Sulla fase di transizione dalla comunicazione gestuale a quella orale è probabile che le due tipologie siano state compresenti, da sempre, nella storia evolutiva dell’umanità. La gestualità, ancora oggi, accompagna la comunicazione quotidiana e la rende, lasciatemelo dire, assai più efficace. Perché il gesto è il rinforzino del Mascetti.

Ebbene, tutto questo ragionare di linguaggio è atto per arrivare all’ovo della questione.

Villa Peyron al Bosco di Fontelucente

Nell’amato, da me, certo, che ne son madre, romanzo Il cielo stellato fa le fusa (Rizzoli), in una villa sulle turgide colline di Fiesole, Villa Peyron al Bosco di Fontelucente, magione profumata di fiori, luce, sugo, caffellatte e bucati, s’ha da svolgere, durante un fine settimana, un convegno prelibato che parla di Cibo e Cultura, rime e arrosti, poesia e maritozzi.

I partecipanti, golosi di bellezza e d’arte, vengono da ogni dove, c’è Angela, coi sodi ideali volata dalle Americhe, il biondo Gustav dalla compita Scandinavia, la magica Mara dall’immensa Sardegna, lo spettinato Vincent dalla rivoluzionaria Francia, il sagace e peloso Mario dalla cocente Napoli, la taciturna Marlene, col naso sparpagliato di lentiggini, dalla precisa Germania, il misterioso Albert dalla struggente Genova e infine Clara, la perfetta relatrice, tanto a modino ma nascosta, nonostante la coda alta e il rossetto ciliegia, che di strada ne ha fatta poca perché viene da Firenze. Governante e regina della magione è la Lauretta, di Campi Bisenzio, contado toscano, colei che tutto tiene a bada, sbenedizionando a destra e a manca col mestolo disinvolto, la cucina sopraffina e la ciabatta lesta quanto la lingua.

Ma ecco che d’improvviso, accade l'impensabile. «Signori miei, magari qualcuno se lo poteva anche aspettare! Allora sei!». In città e in tutto il paese è scoppiata un’altra volta. Non ci sono soluzioni alternative: bisogna barricarsi.

Sei giorni, sprangati chiusi, senza mettere il naso fuori» dice la Lauretta. «Meno male che ci s’ha le provviste per un bastimento.» E così il variopinto bouquet d’umani si trova rinchiuso, per un tempo assai più lungo di quello immaginato in quel luogo d’agio e splendore, terrazze e pan con l’olio.

Una clausura involontaria, un perimetro stretto stretto, anche se straordinario. E come non tornar con la mente e non ispirarsi al Decameron del Ser Boccaccio? La Villa diventa tana dove tutti ingannano… il tempo, sia chiaro.

Fermi. Di gesso! Nessuno può andare. Che ne sarà di questi sventurati, alla ventura? Sconosciuti gli uni con gli altri. In fondo anche a se stessi. E non potendo più uscire, che si fa? Si novella. Tutti diventano oratrici e oratori, per ritrovar l’allegrezza certo, ma in verità, per dire assai di più.

Umani che narrano di vergini non più di primo pelo, di principesse e malocchi, di luce e bulli da osteria, di morti molto vivi, di donne che hanno battagliato per stare in prima fila e di poeti e poetesse dimenticati che sono rimasti in ultima, di madri coraggio, di poliziotti e regine unti in ogni pertugio, di fughe dal matrimonio, di incantesimi d’amore, matite spezzate, nonni muratori, e marchettari rotti e profumati. Insomma, in questa storia c’è la vita. E anche qualcosa in più.

La vita tramite la parola

Il core di questo mio romanzo trova il suo tamburellare nel linguaggio. Storie da raccontare, storie da ascoltare, storie da leggere. Novellare significa vivere. Il linguaggio è questa roba qui: toccare, riconoscere, comprendere, esistere.

La malattia, se ci pensate, rappresenta per l’uomo l’errore, l’esclusione dal mondo della vita, e il suo rifiuto disegna i tratti della più solida delle nostre paure: quella della morte. La più grande delle umane voluntates, difatti, è il voler vivere. Platone nel Fedro fa usare a Socrate un termine meraviglioso: hòleousìa che significa, totalità dell'essere ma anche “essere sano”.

Perché è esattamente questo, la salute e, quindi, la vita: un esserci, un essere nel mondo, uno stare insieme agli altri con cui condividere bellezza e patimenti. Noi siamo la natura e la natura è noi. Ma ora mi congedo e lascio la parola al vero protagonista del racconto. «Sapete, anime semplici, qual è il muscolo rosso della salute? Il linguaggio. Perché è solo tramite la parola che si fa la vita.

Il linguaggio salverà il mondo.

Il sentirsi parte della natura non vi faccia, però, dimenticare quanto siete limitati e quanto sia importante vi alleniate alla verità e alla simpatia, che non è pietà, ma capacità, di soffrire, di provare emozioni insieme, di essere insieme agli altri.

«Vi potete fidare se lo dico io». «Ah, lasciate che mi presenti. Chi vi sta parlando e v’accompagnerà durante tutto il romanzo, alla scoperta di questa straordinaria commedia umana, sono io».

«Mi chiamo Rollone il Vichingo e rappresento quanto di più perfetto esista in natura: un gatto, dal pelo fulvo, le orecchie enormi e le zampe paffute del medesimo colore del naso. Rosa salmone.

«Io vedo e so. Molto più di ciò che dico. Sempre. «In questa storia a furia di narrare e toccarsi con parole, c’è chi s’innamorerà, chi si metterà in gioco e chi si pentirà amaramente. Ma tutti, alla fine, faranno la cosa più coraggiosa del mondo. Si riveleranno per quello che sono: uno spettacolo misterioso, una frittatona saporita come solo gli umani sanno essere. Parola di Rollone.

«Un gatto che parla. Che assurdità, direte. Eppure, succede, stolti. Non è un balocco e neanche un capriccio. «Provate a concentrarvi e a credere. E capirete che è solamente un gioco che si chiama vita.

Ogni gioco è innanzi tutto e sopra tutto un atto libero.

J. Huizinga, Homo ludens

Chiara Francini è autrice del libro Il cielo stellato fa le fusa, edito da Rizzoli

© Riproduzione riservata