«Abbiamo deciso di rinunciare a un giorno di lezione e venire qui e dimostrare che anche se siamo giovani ci preoccupiamo dei problemi». Sono le voci di studenti, figli dei lavoratori nelle miniere del Sulcis, Sardegna, che si uniscono alla protesta dei genitori. Così si apre Uomini in marcia, di Peter Marcias, in programma alla Festa del cinema di Roma: una ricostruzione della storia delle lotte sindacali e dei lavoratori in Italia, dalla repressione nel sangue di manifestazioni come quella dei minatori di Monteponi (1920) ai giorni nostri. 

Il racconto è affidato a Gianny Loy, professore di diritto del lavoro, ma gli fanno eco testimonianze e filmati di archivio. «Ciò che è cambiato negli ultimi due decenni, tre decenni, è che fino a poco tempo fa pensavamo che se non avessimo vinto questa volta, avremmo vinto la prossima o quella dopo ancora o tra 20 anni, 50 anni. Un giorno vinceremo. Ora non abbiamo questo lusso», dice il regista inglese Ken Loach, tra gli intervistati. Alle sue spalle il manifesto di Bread and Roses, titolo di un suo film ma anche slogan dei movimenti operai. 

Che dietro «la magia» del cinema ci siano dei lavoratori, si è ricordato in questi mesi di scioperi di sceneggiatori e attori; ma il lavoro è anche dentro la narrazione cinematografica, che in Italia ha più volte scelto di raccontare le storie di operai, contadini, impiegati, spesso in contrasto con quella che si proponeva come l’immagine reale del paese.

I neorealisti contro la Dc

Il 1948 è l’anno in cui entra in vigore la Costituzione, con l’articolo 1 che statuisce come l’Italia sia «una repubblica democratica, fondata sul lavoro». In quello stesso anno sono quasi due milioni e mezzo i disoccupati. Sempre nel 1948, esce Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, uno dei capolavori del Neorealismo, sceneggiato da Cesare Zavattini. Segue la storia di Antonio Ricci, disoccupato che trova lavoro come attacchino comunale: prerequisito fondamentale è possedere una bicicletta, ma gli viene rubata il primo giorno.

Le autorità non sono di alcun aiuto al povero Ricci nel ritrovarla, e senza quella il lavoro sparisce. Due anni dopo sarà Giuseppe De Santis in Non c’è pace tra gli ulivi a proporre la condizione di un pastore ritornato dal fronte. Ha perso il suo bestiame e solo nella solidarietà di classe può sperare di trovare un riscatto.

Nel 1952, di nuovo Vittorio De Sica apre il suo Umberto D. con una manifestazione di pensionati scacciati dalla polizia. È una rappresentazione cruda della condizione del popolo italiano e non va giù ai politici di allora.

Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo tra il 1947 e il 1954, stronca Umberto D. su Libertas,  sostenendo che si trattava di «un pessimo servizio alla sua patria». Qualche anno prima, lo stesso Andreotti aveva presentato una legge, emanata nel 1949, per promuovere la crescita del cinema italiano. Per accedere ai finanziamenti pubblici, la sceneggiatura andava sottoposta a una commissione statale. Sono gli anni in cui si dice che «i panni sporchi si lavano in famiglia».  

Accanto ai film di finzione, esistono anche i documentari. Michelangelo Antonioni sempre nel 1948 realizza un corto che si intitola N.U.-Nettezza urbana: «Gli spazzini fanno parte della città come qualcosa di inanimato eppure nessuno più di loro partecipa alla vita cittadina», dice la voce narrante all’inizio, mentre la camera inquadra gli uomini che puliscono la scalinata deserta di Piazza di Spagna a Roma all’alba. Altri ne realizza Vittorio De Seta negli anni Cinquanta, sul proletariato nelle isole e sulle vite dei pescatori. 

L’industrializzazione

Con il boom economico la disoccupazione tocca il suo minimo storico: nel 1963 è al 4 per cento. Eppure, scrive Manfredi Alberti su Etica Economia, rimane «sostanzialmente irrisolto il tradizionale problema del dualismo», riferendosi a una spaccatura tra il nord e il sud. Nel 1960 esce Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti: una famiglia lucana raggiunge il figlio maggiore a Milano, dove ci sono possibilità di lavoro. Il fascino del benessere economico cittadino corrompe in maniera irreparabile uno dei fratelli. 

Di nuovo, si assiste a uno scontro tra la verità del cinema di finzione, e il filtro che si vuole applicare alla realtà. La provincia di Milano aveva infatti ostacolato la lavorazione del film: anche qui c’era lo zampino di un democristiano, Adrio Casati, che considerava il film «denigratorio».

Allora presidente del Consiglio provinciale, Casati non aveva voluto dare il permesso di girare alcune scene all’Idroscalo. «Noi pensiamo che stia per diventare il polmone della città: un luogo per gente sana, sportiva, per i giovani. Non desideriamo che se ne offra una diversa interpretazione», aveva scritto. 

La vita propriamente industriale è invece al centro di La classe operaia va in paradiso (1971), di Elio Petri, dove Gian Maria Volonté è un operaio entusiasta del suo lavoro a cottimo, finché un incidente non lo lascia infortunato e si rende conto di quanto il sistema sia indifferente all’essere umano, chiamato a essere dedito solo alla produzione.

La rivista Birdmen ricorda che Petri e Volonté incontrarono i lavoratori della Demm, un evento molto partecipato che «rappresentò la possibilità di una militanza reale contro quella retorica della sinistra parlamentare». Il film ha vinto a Cannes ed è stato un grande successo di pubblico.

Da Fantozzi ai precari

È con il ragionier Fantozzi, personaggio creato dal comico Paolo Villaggio, che la macchina da presa arriva dentro gli uffici, dipingendo il ritratto più iconico dell’impiegato, nelle sue disavventure quotidiane all’interno della Megaditta, tra una disastrosa attività aziendale, che oggi si chiamerebbe team building, e l’altra. È il simbolo del lavoratore dopo il boom economico: ma non c’è nessuna gioia nelle sue giornate. «L’italiano medio si è riconosciuto nell’infelicità di Fantozzi», ha spiegato Paolo Villaggio nel 1975.

Il posto fisso di Fantozzi oggi è sempre più raro: dai dati Eurostat raccolti da Sky Tg 24, il 13,5 per cento in Italia è precario. I giovani non inseriti in un percorso di formazione con un contratto a tempo determinato sono il 43,6 per cento, il doppio della media europea. Il Neorealismo è finito, non rimane che la commedia. Ovosodo (1997) e Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, a distanza di dieci anni raccontano con toni agrodolci i sogni non realizzati prima e la vita precaria poi. 

«Siete due latinisti di fama internazionale e fate i benzinai di notte per un cingalese che vi paga a nero», sbotta invece Pietro, interpretato da Edoardo Leo, in Smetto quando voglio (2014), primo titolo della trilogia di Sydney Sibilia, scritta con Valerio Attanasio.

Un gruppo di ricercatori e professori a contratto decide di mettere le proprie conoscenze a frutto in un settore che saprà premiarli meglio del mondo del lavoro: la produzione e lo spaccio di droghe intelligenti. E qua siamo alle prese con una paradossale flessibilità e una grottesca riconversione. Un film di oggi che non dimentica le lezioni dei classici, proponendo un’eco degli scalcagnati Soliti ignoti di Mario Monicelli.

Era il 1958. La Cgil aveva appena perso Di Vittorio e molte cose nel lavoro in Italia cominciavano a cambiare. Solo cinque anni prima, Alberto Sordi aveva fatto un famoso gesto dell’ombrello ai «lavoratooriiii» ne I Vitelloni. E la censura stava per tagliarlo. 

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