Può un saggio essere felice? Nella prospettiva della filosofia antica, deve, perché il saggio costruisce la sua vita sulla ricerca della conoscenza: e senza conoscenza non c’è virtù, e senza virtù non può esservi felicità.

Oggi la nozione stessa di “saggio” (ciò che i Greci esprimevano con la parola sophós) sembra anacronistica, dato lo sviluppo esponenziale dei saperi; ma forse non lo è, se consideriamo la sophía un atteggiamento generale dell’essere cercante. Più che una terra comune in cui arrivare e incontrarsi, o il nobile castello in cui Dante colloca sapienti e poeti, la sophía può essere immaginata come un orizzonte sul mare, all’inizio di un giorno chiaro: un posto verso cui andare, e da direzioni diverse.

La fisica, ad esempio, vede l’uomo troppo da lontano; la psicanalisi, al contrario, troppo da vicino. Ma innumerevoli sono le navi varate dall’umanità, dalle sue scienze e anche dalla sua poesia, che muovono verso quell’orizzonte per rotte diverse, da ogni luogo: e la caratteristica di un orizzonte è quella di spostarsi sempre.  

Consapevolezza del sé

Il saggio dell’antichità, ovvero il filosofo, era a modo suo un eroe: non uno di quelli giganteschi dell’epica, come Achille o Ettore, pronti a dare la loro vita in un giorno solo, ma l’eroe di un modo di essere che si proponeva lo sforzo, in apparenza impossibile, di dare un senso razionale alla particella di coscienza che vive in ogni essere umano, circondata da un gran cerchio d’ombra, dentro e fuori di lui.

E anziché alla disperazione, o al rifugio sotto le grandi ali di un’entità sovrumana, questa cognizione della limitatezza dell’uomo – esposto alle disgrazie, alle epidemie, alle guerre e, perché no,  anche alla tragedia di un amore mancato – orientava il sophós a un retto vivere e a un retto sentire, senza attendersi molto altro che l’accettare il destino comune.

Per usare ancora la metafora della nave, vengono in mente le belle parole del Manuale di Epitteto: «Viaggiando per mare, se la nave ormeggia e tu scendi per attingere acqua, potrà capitare lungo la strada di raccogliere una conchiglia o una radice, ma la tua attenzione deve essere sempre volta alla nave. Continua a voltarti indietro per vedere se il timoniere ti chiama, lascia perdere tutto, se non vuoi che ti trascinino sulla nave legato come una pecora. Così nella vita, se non avrai conchiglie e radici, potrai anche avere moglie e figlio, e nulla t’impedirà di avere la tua famigliola. Ma se il timoniere ti chiama lascia perdere tutto, e corri alla nave senza nemmeno voltarti indietro. E quando sarai vecchio, non ti allontanare troppo dalla nave, in modo da non mancare quando verrai chiamato».

Non è un dio, questo timoniere, ma la coscienza di sé e del proprio compito nel mondo. Chi si è creato una solida consapevolezza di sé affronta meglio la morte e il destino, e così pure la malattia e l’epidemia e ogni sorta di paure, anche le più irrazionali, come quella del rimedio (la stessa che tanti oggi provano all’idea di vaccinarsi). Negare i pericoli è da folli, ma alimentarli a dismisura rende vili; la sophía degli antichi insegnava invece il coraggio.

La missione fondamentale del filosofo, nell’antichità, al di là dell’appartenenza a una scuola o a un’altra, consisteva appunto nel reinventare sé stesso, seguendo il progetto di una vita libera su basi razionali; philosophéin, fare filosofia, non era semplicemente l’esercizio della ragione o del sapere, ma una scelta di vita in cui era impegnato tutto l’essere umano, corpo e anima.

Ci sono tanti nemici della ragione, dentro e fuori un essere umano: le passioni con cui ognuno si scontra, il terrore che viene da un atteggiamento istintuale, e la peggiore di tutte, l’intolleranza, che solo la ragione può sperare di domare, come la paura della morte, la paura della peste o dei barbari. La paura aiuta un animale a salvarsi fuggendo, ma non aiuta un uomo a essere uomo.

La filosofia antica voleva insegnare che esiste sempre un modo per poter essere sé stessi, anche nei momenti più disperati: non fu dunque un sapere specializzato, bensì uno strumento onnicomprensivo di pensiero e prassi.

Il pensiero di Pierre Hadot

Secondo Pierre Hadot, una delle menti più lucide della filosofia del XX secolo e grande studioso della filosofia antica, lo scopo del filosofo greco non era di costruire sistemi, bensì insegnare non solo a saper ragionare, parlare e discutere, ma prima di tutto a saper vivere nel senso più alto del termine.

Hadot nacque quasi un secolo fa (nel 1922) in una famiglia francese cattolicissima; studiò la teologia e divenne prete, ma abbandonò il sacerdozio: aveva deciso che il mondo di Platone e Marco Aurelio lo attirava di più della teologia cristiana, la cui spiritualità peraltro aveva contribuito a formare la sua mente e continuò poi ad agire nel fondo del suo pensiero.

Hadot non fu un semplice storico della filosofia antica, ma un pensatore autentico, che seppe misurarsi in modo straordinariamente attuale, e anche simpatetico, con la vertiginosa profondità del pensiero antico: «La figura del saggio comporta due dimensioni che sono completamente estranee all’uomo della vita quotidiana, cioè la libertà interiore e la coscienza cosmica».

Hadot fu uno specialista della filosofia di epoca imperiale, in particolare del neoplatonismo; nei suoi scritti praticò in definitiva una forma di antropologia filosofica, maturata soprattutto negli anni in cui insegnò all’École des Hautes Études, avendo come colleghi personaggi del livello di Jean-Pierre Vernant e Marcel Foucault, entrambi insigni storici della civiltà.

A che può servire la filosofia, infatti – dice Hadot – se non a insegnarci a superare gli angusti limiti della coscienza individuale per renderci consapevoli di appartenere alla più vasta comunità degli esseri umani e, più in alto ancora, del fatto che gli esseri umani non sono che un frammento di un’entità che abbraccia tutto il cosmo? Così dicevano anche i neoplatonici. L’Universo – come scriveva dal canto suo nel II secolo d.C. il misterioso filosofo Celso, nel Discorso vero – non è stato creato per l’uomo più di quanto sia stato creato per il leone o il delfino.

Pensa a vivere

Per certi aspetti, la filosofia antica fu una forma di religione laica: una religione della mente, fondata cioè sul percorso della ragione e sulla dialettica anziché sulla rivelazione. Perciò il saggio antico procedeva per la vita guidato dalla filosofia, pur tra tante contraddizioni: e non voleva essere estraneo alla vita, un meditativo puro, perché sapeva che anche se tenti di stare alla larga dalla vita, la vita ti viene a cercare comunque, prima o poi.

«Pensa a vivere! Osa essere felice!», scriveva Goethe, un uomo profondamente nutrito di cultura classica; potrebbe essere il consiglio di un antico sophós a un suo discepolo. Pensa a vivere, cioè abbi il coraggio di conoscere i tuoi doveri verso gli altri ma anche le tue passioni, e di passarci attraverso. «Il nostro glorioso capolavoro», scriveva a sua volta Montaigne (uno dei maestri dell’Umanesimo), «è vivere come si deve […]. È una perfezione assoluta e quasi divina saper godere lealmente del proprio essere»: perché l’uomo  è una creatura razionale, ma (secondo gli antichi sapienti) non completamente razionale – per sua fortuna, probabilmente.

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