Il 25 marzo, festa solenne del Dantedì, la Germania si è macchiata del crimine di lesa maestà contro il nostro Altissimo Poeta. O almeno, così sembrava dai titoli dei giornali nostrani, che reagivano pavlovianamente a un articolo del Frankfurter Rundschau. La Lega ha addirittura sollevato il caso al parlamento europeo, cogliendo l’occasione per tirar acqua al proprio mulino: lamentando, cioè, che gli olandesi avessero censurato la Commedia in un’edizione ridotta per le scuole, togliendo Maometto dall’Inferno, dove invece Dante l’aveva messo tra i seminatori di discordie (cioè, paradossalmente, nello stesso girone destinato ai leghisti).

Naturalmente, la maggior parte degli intervenuti ha reagito secondo le pessime leggi della modernità: rispondere subito a ciò che viene scritto, ma senza preoccuparsi di leggerlo, e non entrando comunque mai nel merito delle questioni. D’altronde, come agli utenti dei social media interessa soltanto accapigliarsi con gli altri utenti, così ai giornalisti interessa soltanto parlare con e degli altri giornalisti. Non a caso, anche nel programma in onda su Rai 3 la sera del 25 marzo, a commentare il canto letto da un (ex) comico c’erano solo tre giornalisti che cianciavano amabilmente fra loro, uno interrogando e gli altri pontificando, com’è ormai d’uso in tutti i talk show televisivi.

Nel pomeriggio si era invece tenuta nella cappella del Quirinale una messa grande in suffragio dell’Altissimo Poeta, celebrata dal decano del sacro collegio dei dantisti, cioè lo stesso (ex) comico citato, e servita da due chierichetti d’onore, cioè il presidente della Repubblica e il ministro della Cultura. Quest’ultimo, in servizio attivo fin dalla mattina presto, aveva subito risposto su Twitter alle provocazioni d’oltralpe con un verso appropriato: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Non chiarendo, però, se il colto riferimento agli ignavi fosse eteroreferenziale o autoreferenziale: evitando accuratamente di entrare nel merito della questione, come tutti, il ministro poteva infatti anche apparire come lo struzzo che nasconde la testa nella sabbia per evitare di affrontare un problema imbarazzante.

Una piccola questione

Perché, indipendentemente dagli argomenti sollevati dalla rivista tedesca, gli scudi che sono stati levati a falange mostrano che chiunque metta in dubbio lo status culturale del poeta, o del poema, tocca un nervo scoperto del nostro paese. Io stesso l’ho sperimentato altre volte nel passato, quando ho provato a sollevare una piccola questione, che fa però imbestialire i sacerdoti del culto dantesco, in particolare, e i fedeli della letteratura, in generale. Il problemino sta nel Trattatello in laude di Dante del Boccaccio: il quale ovviamente non conobbe mai il poeta, morto quando lui aveva otto anni, ma era comunque più vicino ai fatti e alla realtà di quanto non sia l’odierno clero del culto citato.

La piccola questione non è quella, peraltro interessante, della vera apparenza fisica del poeta, completamente diversa dall’iconografia ufficiale. Boccaccio descrive infatti Dante come un mostriciattolo: «Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso». E aggiunge che una volta alcune donne, vedendolo passare per strada, lo canzonarono: una disse che quello era uno che andava avanti e indietro all’inferno, riportando notizie di chi stava laggiù, e un’altra rispose che evidentemente la barba gli era stata increspata e annerita dal fuoco dell’aldilà.

La piccola questione è invece quella, ancora più interessante, del vero autore del gran finale della Commedia. Boccaccio racconta questa volta che Dante era solito mandare in anteprima a Cangrande della Scala «sei o otto o più o meno canti», man mano che li componeva, ma quando morì mancavano gli ultimi tredici, e non si trovarono da nessuna parte. I figli Iacopo e Piero furono allora convinti dagli amici a scriverli essi stessi, per completare l’opera. E otto mesi dopo i canti mancanti apparvero miracolosamente, mezzi ammuffiti, in un nascondiglio segreto graziosamente indicato a Iacopo in sogno dal padre stesso.

Se uno crede alle storie raccontate dal poeta, può anche credere a quelle raccontate dal figlio. Ma a una persona razionale può invece venire il dubbio che l’episodio narrato dal Boccaccio non fosse altro che un modo elegante per attribuire falsamente a Dante la paternità del completamento dell’opera effettuato da Iacopo e Piero. Ovviamente, la cosa non ha nessuna importanza per chi si interessa solo al poema, chiunque l’abbia scritto, ma provate a suggerirla a un dantista, per il quale il poeta è un essere divino! Otterrete la stessa reazione isterica che avrebbe un cristiano fondamentalista se gli diceste che il racconto della resurrezione non si trova nella versione originale del più antico Vangelo canonico, benché persino la versione ufficiale della Cei confermi che il gran finale «è un supplemento aggiunto in seguito».

L’ora di religione

L’accostamento fra i Vangeli e la Commedia non è così peregrino come potrebbe sembrare, perché si tratta in entrambi i casi di opere fantastiche, basate su una medesima mitologia religiosa. E il vero motivo per cui la lettura di Dante è imposta obbligatoriamente nelle scuole superiori di ogni ordine e grado, è perché essa costituisce un surrettizio complemento dell’ora di religione: l’una è funzionale all’altra, e si sostengono a vicenda. L’obbligo della lettura di Dante addirittura precede quello dell’ora di religione: la prima fu imposta già nel 1860 da Terenzio Mamiani, ministro dell’Istruzione nel terzo governo Cavour, mentre per la seconda bisognò attendere il fascismo, in generale, e il Concordato firmato nel 1929 da Benito Mussolini con il Vaticano, in particolare.

In ogni caso, è appunto solo a partire dal Romanticismo e dal Risorgimento che Dante divenne il poeta di riferimento della letteratura italiana: fu Francesco De Sanctis, ministro dell’Istruzione nel quarto governo Cavour e nel primo governo Ricasoli, a canonizzarlo nella Storia della letteratura italiana (1870), dopo cinque secoli di giudizi tutt’altro che benevoli, in patria e all’estero. A partire dal quasi contemporaneo Petrarca, che diceva che «Dante scriveva per la gente d’osteria»: cioè, non tanto e non solo in lingua volgare, quanto piuttosto e soprattutto per il lettore volgare. Oggi, poi, il mondo fisico e intellettuale della Commedia è quanto di più anacronistico si possa immaginare, basato com’era su tre colonne ormai distrutte: la filosofia di Aristotele, la scienza di Tolomeo e la teologia di Tommaso d’Aquino.

Dopo il bigotto mortorio della Scolastica, che nella Commedia informa soprattutto le soporifiche tirate del Paradiso, nel Rinascimento la cultura rinacque guardando altrove: in particolare, al materialismo ateo del De rerum natura di Lucrezio, ritrovato nel 1417 da un altro meritorio toscano (Poggio Bracciolini), e alla vitalità dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, pubblicato esattamente un secolo dopo. Dal canto suo, il neoplatonismo rinascimentale portò nel tempo al declassamento di Aristotele, che passò da essere «il maestro di coloro che sanno» di Dante a «l’ultimo refugio di quei filosofi, li quali vorriano pure accomodare le opere della natura alle loro inveterate opinioni» di Galileo.

Non è un caso che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo la parte del tonto venga affidata a Simplicio, un ottuso aristotelico e tolemaico, che fin dal nome lasciava trasparire il giudizio tombale di Galileo sulla filosofia e la scienza che informavano l’opera di Dante. Continuare ad ammannire ancor oggi l’una e l’altra agli studenti di ogni ordine e grado è un insulto alla loro intelligenza, oltre che alla storia e alla cultura del nostro paese.

E lo è ancor di più ammannire l’anacronistica teologia tomista, spazzata via nei paesi nordeuropei dalla Riforma protestante, benché testardamente restaurata in quelli mediterranei dalla Controriforma. Nonostante le supposte novità del Concilio Vaticano II, ancor oggi la Chiesa continua a ritenere Tommaso il proprio punto di riferimento intellettuale: nella lettera apostolica Lumen ecclesiae (1974) di Paolo VI egli viene appunto definito «luminare della Chiesa e del mondo intero», e nell’enciclica Fides et ratio (1998) di Giovanni Paolo II «maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia».

Modernità letteraria

Paradossalmente, Dante non è moderno neppure dal punto di vista puramente letterario. Nel Convivio e nell’Epistola a Cangrande della Scala egli indica infatti «come mangiar si dee questo mio cibo», leggendo il testo in maniera letterale, allegorica, morale o anagogica: cioè, passando gradualmente dalla storia che viene raccontata, all’interpretazione che se ne può dare, all’insegnamento che se ne può trarre, al significato spirituale che le si può attribuire.

Gli scrittori moderni, più modestamente e più seriamente, sono consci di essere solo degli artigiani delle parole, e ben si guardano dall’atteggiarsi a pensatori, predicatori o visionari. Gustave Flaubert, ad esempio, suggeriva in una Lettera a Marie-Sophie Leroyer de Chantepie (1857): «Non leggete per divertirvi, come i bambini, o per istruirvi, come gli ambiziosi, ma per vivere». James Joyce, nel Ritratto dell’artista da giovane (1916), definiva «pornografica o didattica l’arte impropria, che mira a eccitare i sentimenti». E Vladimir Nabokov, nelle Lezioni sulla letteratura (1940) ammoniva: «Leggete non per il proposito infantile di identificarvi con i personaggi, o quello adolescente di imparare a vivere, o quello accademico di indulgere in generalizzazioni, ma per la forma, la visione e l’arte dei libri».

Leggiamo dunque ovviamente le parole di Dante, alcune delle quali sono indimenticabili, ma non dimentichiamo neppure che le sue idee sono figlie di un tempo che non è più il nostro: dall’estero si vede facilmente, dall’interno forse no.

 

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