Tu non mi perderai mai è diventato un assolo senza tempo. È un perfetto faro tra le non poche ricerche italiane di valore per l’assenza di effetti e di precostituiti stratagemmi. Qui Raffaella Giordano si affida alla trentenne Stefania Tansini per re-interpretare dopo vent’anni uno tra i suoi assoli più misteriosi e inafferrabili, ispirato dal testo ebraico presente nel Vecchio Testamento
Il percorso non è accidentato, anzi. Tuttavia la danzatrice Stefania Tansini vi procede con estrema cautela. Una volta discesa la pendenza della platea, entra nello spazio scenico del Teatro Out Off di Milano deponendovi la sua borsetta antica per poi farci scoprire, con indugiante trasparenza, quanto quel luogo le sia noto e ignoto. La mano che lentissimamente esita ad abbandonare la pochette aperta proprio sul liminare del ring performativo, quasi fosse il precedente rifugio di una vita vissuta altrove, è un segnale. Da quel momento assisteremo a un rito misterioso, concretissimo ed evanescente, messo in atto da una creatura dalla purezza diabolicamente pura.
Esile, con il volto senza trucco e una treccia magra, indossa una nera gonna longuette, una mussola variamente rosso e nera, come un Paul Klee del ‘28 e scarpette col tacco basso. Nessun altro corpo di danzatrice poco più che trentenne potrebbe vestire una simile, raffinatissima, mise – gli stolti la chiameranno vintage –, se non colei che nel 2005 fu non solo interprete ma anche creatrice di Tu non mi perderai mai.
L’assolo di e con Raffaella Giordano era la poetica e sensibile conferma dell’alto livello artistico raggiunto da una pioniera della danza contemporanea “storica”, passata da Carolyn Carlson a Pina Bausch, al gruppo Sosta Palmizi da lei cofondato e all’omonima Associazione di cui ancora è parte; dal teatro al cinema d’autore cui piacciono sempre il suo volto attraente, la postura da (vera) aristocratica.
Oggi, nel corpo di Tansini, ubbidiente al severo diktat della didatta Giordano ma da lei reso autonomo di cogliere il fascino del disegno ondeggiante delle forme sensibili (il movimento dell’unità nella diversità: sì ancora Kant nella Analitica del bello), Tu non mi perderai mai è diventato un assolo senza tempo. È perfetto faro tra le non poche ricerche italiane di valore per l’assenza di effetti, di precostituiti stratagemmi, per la leggerezza poetica.
La nuova interprete
Tansini non somiglia a Giordano, le vibrazioni della maestra sempre morbide, involontariamente sensuali, diventano nella cosiddetta “allieva” chirurgiche. I suoi gesti e movimenti quando accarezza il suolo e se stessa, le braccia alzate, la schiena eretta come un fuso, il collo ritorto e il braccio che si piega oltre la scapola per raggiungere il collo e quel port de bras ove le mani si sfiorano una sull’altra per poi chiudere lo spazio d’aria sopra il capo si trovano solo, mutatis mutandi nel Trattato di danza accademica più famoso di Carlo Blasis, grande teorico di un balletto di metà ‘800 dalle misurate forme canoviane.
Inimitabile lei che di certo non sbeffeggia la danse d’école, e non vi appartiene, ma ne restituisce l’adamantina essenza formale. Giordano che l’ha voluta per inoltrarsi nello spazio sempre frastagliato da suoni vari, di natura e città, cinguettii, lunghe sirene, tonfi, graffi di un bruitismo lontano, ha fatto un investimento consono ad ogni odierno passaggio di testimone.
Sapeva l’autrice dell’assolo del 2005 che prima o poi tra stupori e trasalimenti leggibili nei suoi occhi sgranati, la nuova testimone avrebbe dovuto incontrare quell’assente “tu” che “non la perderà mai”, desiderio d’amore accolto e svagatamente espunto, senza patemi concettuali, dal Cantico dei Cantici? Si, lo sapeva. Ed ecco la sorpresa. Dopo aver attraversato lo spazio in quieta sospensione emotiva, da sinistra a destra per poi riformulare lo stesso tragitto, sostare al centro, cercare il cielo e la terra abbandonandovi le scarpette nere, i piedi nudi incontrano quel che da lontano somiglia ad uno zerbino e invece è un rettangolo di terra.
La danzatrice lo calpesta e vi lascia fuoriuscire una scia di polvere: piccolo tratto pittorico o sbavatura che anticipa l’accensione di una luce rosso fuoco. Dentro il suo calore tutto il corpo della Tansini si apre come in un atto d’amore potente, assoluto: da virginale diviene meticolosamente impudico perché libera le sue parti anatomiche nel candore con cui le accarezzava già quando si era racchiuso in conchiglia tenuta insieme dalle braccia, o aveva lasciato che si scorgesse una lunga, ammiccante, coscia sotto la gonna nera.
La narrazione corporea
Il turgore rosso battezza l’evasivo aggancio al magnifico testo ebraico (Shīr hash-shīrīm) e dell’Antico Testamento, attribuito secondo tradizione a re Salomone, ma redatto probabilmente nel IV secolo a.C. Le mille interpretazioni religiose, naturalistiche e metaforiche non scalfiscono il susseguirsi, in otto capitoli, dei monologhi di sposo e sposa nella promessa di un’unione eterna, indissolubile.
La parola “mai” si trasferisce nel titolo dell’assolo danzato ma non va oltre, e gli altri lemmi del testo forse forse si soffermano a quando già Giordano (e ora Tansini) si posava una mano sul cuore («Mettimi come sigillo sul tuo cuore» dice il Cantico). La danza contemporanea, soprattutto, non traduce testi, fa, agisce e questo suo procedere esprime altro: immagina nel tempo e nello spazio come la musica. Ceda le armi chi vuole “capire” o incastonare Tu non mi perderai mai nel presunto scritto salomonico. La solitudine della danzatrice crea la presenza di assenti e ce li fa guardare con il suo mutevole sguardo, ma lo stratificato cammino, pieno di incontri fuggevoli, ha oltre ad un ipnotico respiro, un suo sibillino legato.
La narrazione corporea ha un inizio e una fine – si entra e si esce dal tappeto di danza – in un algoritmo armonioso, senza strappi. Il tempo d’esecuzione lo crea ed è un fattore che, oltre alla diversa personalità e fisicità di Giordano e Tansini, distanzia l’originale pièce dalla sua traslitterazione. Stefania, in specie nel finale, dilata il tempo, poco adusa com’è alla consecutio temporum.
Nel suo recente e più che elogiato assolo L’ombelico dei limbi, da Antonin Artaud, spezzettava le azioni in mille lacerti espressivi con l’abituale perfezione gestuale e dinamica sempre lontana e vicina al giovanile e delirante testo (1925) dell’importante teorico di un teatro ormai fisico. Qui, per il debutto della coproduzione di Fog/Triennale Teatro, ha imparato a dare un altro valore e peso al tempo grazie alla generosità di un’artista, la Giordano, sempre pronta a indicare nuove vie e ancora, coraggiosamente, a cambiare rotta.
Le prossime rappresentazioni:
- 3 e 4 maggio: Fuorimargine, Sa Manifattura, Cagliari
- 11 luglio: Kilowatt Festival, Teatro della Misericordia, Sansepolcro
- 22 ottobre: Stagione Teatro Grande, Brescia
- Altre date in via di definizione.
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