Sballonzolare qua e là senza relazione con lo spazio, rannicchiarsi, camminare a piedi nudi e/o scivolare dondolando il bacino come se si fosse sulla luna, o sulla passerella di una sfilata di moda; passeggiare con calzini e scarponcini, magari nudi; straziarsi un po’ chiudendo il corpo in dolenza afasica. Raccontare di sé, delle proprie belle sciate oppure dei propri anni angosciosi con movimenti inequivocabili. Questa sarebbe danza contemporanea?

La contemporaneità coreutica ha mille facce, ma anche principi certi: nega il narcisismo, non si permette il lusso dei significati, ovvero gioca con il movimento riconsegnandolo al piacere di costruire forme poetiche o misteriose (Kant), ma mai con l’intento di produrre un senso preciso, semmai un nonsense.

Inoltre, insorge contro l’indottrinamento del pubblico: preferisce spronarlo ad entrare in sintonia con ciò che vede attraverso sensibilità e pensieri anche diametralmente opposti a quelli dell’autore, prediligendo sempre l’istinto alla ragione (Artaud).

La respirazione bocca a bocca a Vivaldi

Chi si domandasse davvero cosa sia la danza contemporanea dovrebbe correre a vedere Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione di Anne Teresa De Keersmaeker e Radouan Mriziga, uno spettacolo superbo, per noi epitome di un presente “a tutto corpo”, e a partire da un progetto di ricerca più che rigoroso. Peccato che ora questa meraviglia per soli quattro uomini sia in tour per capitali d’Europa, dopo essersi mostrata al festival “Equilibrio” di Roma e a “Fog”, preziosa rassegna della Triennale Teatro Milano in corso, scatenando un entusiasmo inimmaginabile, foriero della sua certa ricomparsa in Italia. Chi ancora pensa che la danza contemporanea sia destinata a un pubblico di nicchia e invece il balletto alle masse, come vorrebbe farci credere il nostro Ministero alla cultura, traducendo questa invenzione in scarse economie per chi pratica la ricerca, potrebbe inviare in ricognizione i propri emissari. Cosa mai potrebbero obiettare ascoltando la musica delle Quattro stagioni di Antonio Vivaldi, così nota ma tanto logorata e sbiadita in trecento anni di ascolto?

La fiamminga Anne Teresa De Keersmaeker (classe 1960, a capo della compagnia Rosas dal 1983) e il quarantenne marocchino Radouan Mriziga le hanno fatto la respirazione bocca a bocca ed è risorta. Come? Evitando Le Stagioni nel titolo – il Cimento dell’armonia e dell’invenzione composto dal Prete Rosso tra il 1724 e il ’25, ne è comunque il contenitore –; consegnando la partitura a Amandine Beyer a capo dell’ensemble Gli Incogniti per la registrazione e iniziando con lei un’ennesima analisi della partitura.

Forse non ce ne sarebbe stato bisogno. Dotata di un orecchio direi “assoluto” De Keersmaeker ha dialogato con ogni genere di musica: dal minimalismo di cui si è appropriata nella coreografia sin dai suoi vent’anni con iniezioni di malizia e profumi di adolescenziale sensualità – a Bach; da Schönberg ai Beatles sino ai medievalisti dell’Ars subtilior, un genere ritmico complesso e raffinatissimo conosciuto solo dagli esperti.

© Anne Van Aerschot

Quattro interpreti maschili

Le Stagioni vivaldiane guardano a un libretto – non si sa se scritto dallo stesso Vivaldi o da un anonimo poeta – che ne fa uno dei primi esempi di “musica a programma”, Vi viene descritto, a sorpresa, un meteo non sempre propizio alla natura che lo subisce. I due coreografi, ecologisti non dell’ultima ora, ne fanno tesoro per il sottotesto della loro composizione.

Di primo acchito però ciò che più stupisce e incanta nel loro Cimento dell’armonia e dell’invenzione sono Boštjan Antončič, Nassim Baddag, Lav Crnčević, José Paulo dos Santos, i quattro interpreti maschili. Si ha modo di osservarli bene: entrano uno per volta nella gentile ma a volte fibrillante gabbia di pareti fatte di corti neon in file sovrapposte, con un pavimento bianco disegnato a cerchi e sinuose linee che potrebbero correre all’infinito. Loro, i quattro, restano lì, o meglio vanno e vengono, si riposano, bevono acqua ai lati, vicino alle quinte, quando sono stanchi, sempre trasformando la loro eccelsa maestria nella naturalezza e spontaneità di un bambino.

Antončič è severo e massiccio con capelli già brizzolati. Crnčević è in carne e gioioso. Baddag è un solitario ricciolino innamorato dell’hip hop e José Paulo dos Santos è un filiforme ragazzo di colore dallo sguardo tagliente. Tutti, in scarponcini e costumi “a cipolla”- pantaloni lunghi ma anche boxer da pugile, leggerissime tuniche trasparenti e manti pure di velo verdi, rosa, neri - conquistano lo spazio, lasciandoci a bocca aperta. Ogni movimento non ha un respiro fuori posto, un’esitazione.

In concerto Le Quattro Stagioni durano 60 minuti, qui la pièce giunge a 90, spezzata com’è da lunghi silenzi, fischi, tenui latrati di cane, cinguettii e un finale poemetto, We, the salvage, di Asmaa Jama. Questi inserimenti dialogano con i sonetti (pseudo) vivaldiani ove insospettabilmente v’è sempre una minaccia, non solo per la belva ferita nella caccia (Autunno: «De' Schioppi e cani, ferita minaccia. Languida di fuggir, ma oppressa muore»), ma anche per l’uomo investito nella calda Estate dal «timore de' Lampi, e tuoni […] E de mosche e moscon lo Stuol furioso».

Grazie a un formalismo perfetto, adagiato nello spazio tra proscenico, fondoscena, lati, questi richiami vivaldiani si traducono spesso in espressioni – il continuo gioco degli sguardi – e gesti caldi. La rigenerazione allegra di salti mozzafiato sposa un tendere le braccia che muovono le dita come in un farfugliare di uccelli; la caccia autunnale merita l’immaginario schioppo di una colt rifatta con le dita; il battere su di un braccio per evitare punture d’insetti è parte di un vorticoso giro in velo rosa.

Lo sventolio delle mani per fugare la calura e il denudarsi delle tuniche non evita un rimbalzo tra tip tap e hip hop e quel pattinaggio invernale non teme come Vivaldi, o chi per lui, che il ghiaccio d’improvviso si crepi.

© Anne Van Aerschot

La riflessione

Non è un caso se partendo dal Secondo movimento dell’Autunno (Adagio molto), i due coreografi preferiscano procedere per lo più con i movimenti di mezzo (sempre tre) delle Stagioni. Né che sotto il reticolo di ferro del fondale con le luci al neon spesso vibranti compaia per due volte la scritta Autunno e di sfuggita Primavera. Il ritornello popolare “non ci sono più le mezze stagioni” s’incrudelisce.

Viviamo in un caduco Autunno dalle luci fioche – tra l’altro Vivaldi ha scritto le sue Stagioni in tonalità minore creando suspense, tensione – pertanto nel caos meteorologico dovuto al nostro sempre più violento infierire contro terra e natura, stiamo in attesa, con i danzatori di questo Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione di un qualche sole a mezzanotte (Inverno) che cancelli la gabbia e i neon urticanti con un drappo bianco e consenta di pattinare all’infinito.

Il poemetto della Jama fuori campo, «I am, the salvage. I was waiting for spring. I was waiting for, rain. I was waiting for/ I am the land I am the ocean waiting to wake…», pone fine al tutto. Potrebbe sembrare un unico inciampo didascalico in queste indimenticabili Stagioni, ma la voce è impeccabile e le parole si amalgamano al sipario che cala. È un fiocchetto che impone una riflessione. Far riflettere è un dono tra i tanti che la danza contemporanea offre a chi sta a guardare.

© Riproduzione riservata