L’opera di David LaChapelle che maggiormente ha reso evidente il suo interesse per la storia dell’arte è Deluge (2007), una fotografia di sette metri che si ispira all’affresco del Diluvio universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina.

Già presentata a Milano nella grande mostra antologica curata da Gianni Mercurio a Palazzo reale nel 2007, Deluge è nata dall’ossessione dell’artista per i disastri naturali, come l’uragano Katrina che due anni prima aveva portato morte e distruzione nel sud est degli Stati Uniti, colpendo anche la Florida, dove vive la madre. Nell’affrontare questo tema LaChapelle separa la dimensione collettiva della tragedia da quella individuale. Questo lo ha portato a lavorare, contemporaneamente a Deluge, al ciclo Awakened (risvegliati), ritratti di persone sommerse dall’acqua, i cui nomi rimandano ai protagonisti di narrazioni bibliche.

Barocco glam

Sul piano formale e stilistico Deluge crea un cortocircuito tra l’allegoria barocca e la teatralità statica del neoclassicismo. Le figure umane in pose artificiose e innaturali, la definizione dei volti e dei corpi, la messa a fuoco dei dettagli che come in un disegno danno solidità alle forme, i mezzi toni utilizzati per far risaltare i volumi sono tipici tanto del barocco quanto del neoclassicismo. Come ho già avuto modo di scrivere, la sovrapposizione tra barocco, neoclassicismo, pop e glamour era allora inedita nella storia dell’arte del Novecento.

Glamour, storia dell’arte, natura e divino sono punti fermi attorno a cui ruota l’opera di LaChapelle. Tutto ciò emerge anche dalla selezione di fotografie che saranno adesso esposte al Mudec, il Museo delle culture di Milano (22 aprile-11 settembre, a cura di Denis Curti e Reiner Opoku).

Hip hop e religione

Nei lavori recenti presentati ricorre la figura di Cristo. Ricorre alla maniera di LaChapelle, ovviamente, una maniera che tuttavia ha assunto nel passare degli anni valenze espressive e linguistiche diverse.

Nel ciclo Jesus is my homeboy (2003), per esempio, LaChapelle si è appropriato della figura di Cristo dall’iconografia popolare inserendola in contesti urbani nordamericani. Se i riferimenti al vangelo sono espliciti – Gesù nel tempio, Maria Maddalena che lava i piedi a Gesù, l’ultima cena – i personaggi attorno a lui vengono dalla cultura rap e hip hop. Il ricorso simbolico a forti contrasti di luci e ombre accentua il carattere mistico della rappresentazione.

Annunciazione

Nelle foto più recenti i richiami alla figura di Cristo e alle scene riferite tanto alla storia dell’arte quanto alla narrazione religiosa si differenziano dalle precedenti. Sul piano stilistico presentano tratti che evocano aspetti della pittura preraffaellita. Tra questi, Annunciation (2019) riprende e trasforma le annunciazioni rinascimentali in un’immagine che sul piano linguistico rimanda al nostro tempo.

Già presentata nel 2019 alla Reggia di Venaria nella mostra Atti divini, sempre a cura di Denis Curti e Reiner Opok, Annunciation è ambientata in uno spazio chiuso con grandi finestre a ogiva che si affacciano su una rigogliosa vegetazione tropicale che, come nelle annunciazioni rinascimentali, è partecipe di questo momento miracoloso.

Qui una Madonna dalla pelle nera che la luce fa virare al blu è seduta su un pavimento di legno coperto da un drappo rosso. Indossa solo una leggera vestaglia trasparente, aperta. La pettinatura afro è contornata da un’aureola a cerchi concentrici. L’angelo è appena arrivato, come ci racconta il mantello dorato svolazzante che LaChapelle gli ha messo sulle spalle al posto delle ali. Saluta la Vergine e indica il suo ventre, su cui lei ha posato la mano. Intorno alla sua testa brilla un’aureola uguale a quella della Madonna. Come in molte rappresentazioni del passato l’arrivo dell’angelo ha colto Maria intenta a leggere. Anche nella fotografia di LaChapelle c’è un libro aperto accanto a lei. Non si tratta però di salmi o di altri testi sacri, ma di un catalogo d’arte. Che LaChapelle pensi che l’arte, come la religione, possa indicare una via di salvezza non sorprende.

La crucifissione

In un altro suo lavoro, Our Lady of the Flower (2018) una divinità femminile come la Vergine Maria schiaccia un serpente con il piede su una sfera. Ha la pelle nera, indossa una veste bianca e un manto azzurro ed è coperta di ghirlande di fiori. Immersa nella natura, solleva la mano destra nel gesto del Cristo benedicente. Nello stesso tempo questa figura ricorda un giovane Buddha, ma anche la dea Flora nella Primavera di Botticelli. L’immagine ha un’impronta fortemente spirituale e risponde all’idea di religione più volte ribadita da LaChapelle, che vede in ogni fede un fiume che porta a Dio.

Tra i lavori recenti in mostra, The Crucifixion, realizzato nel 2021 alle Hawaii, dove da anni l’artista vive, raffigura un Cristo crocefisso, ma non nel più tradizionali dei modi. L’immagine si distacca dall’iconografia classica cui fa riferimento per introdurre una serie di elementi che ne complicano la lettura.

Gesù non è inchiodato a una croce di legno, anzi, potrebbe non esserlo per nulla, visto che mani e piedi sono esclusi dalla rappresentazione e che sembra adagiarsi su un tronco d’albero. È incoronato da una duplice corona, una di filo spinato e una di fiori. I rivoli di sangue e le ferite della carne sono in realtà rossi petali che, simili a gocce di sangue o lacrime, sembrano fiorire sul suo corpo. Se l’aureola dorata rimarca che ci troviamo dinanzi a un soggetto sacro, la posizione del corpo con le braccia allargate e sollevate, che segue la forma dell’albero, e le ferite fatte di fiori e petali rossi creano una piena corrispondenza tra la figura umana e gli elementi naturali.

Squilibri

Più che a una dimensione teologica del Cristo come simbolo dell’uomo-Dio che muore e rinasce, questa, come altre raffigurazioni a soggetto religioso di LaChapelle, è legata ai cicli del divenire naturale in cui ogni elemento si trasforma senza traumi dando vita ad altro.

Ciò che emerge è l’innocenza stessa del divenire, che LaChapelle riconduce alla sua idea di sacro e di spiritualità.

È del resto innegabile che la natura mette in continuazione sotto i nostri occhi il processo di morte e resurrezione, qui espresso dalla corrispondenza tra corpo ferito e corpo “fiorito”. LaChapelle fa così propria la visione di chi vede nella natura l’estensione di Dio e nel suo sfruttamento selvaggio la sua profanazione.

Non sorprende dunque che ai soggetti di matrice religiosa abbia affiancato tra il 2009 e il 2014 il ciclo delle Gas Station, una serie di paesaggi industriali, raffinerie o centrali nucleari che possono apparire reali nonostante siano modellini costruiti con bigodini, barattoli, bombolette, lattine, cannucce, cartoni e contenitori di plastica.

Realizzato con oggetti di materiale sintetico e metallo di uso quotidiano questo ciclo di fotografie evidenzia che continuiamo a inquinare l’ambiente naturale producendo oggetti la maggior parte dei quali, non andando incontro alla decomposizione naturale, sono destinati a creare squilibri ecologici e sociali.

Se per un verso in queste fotografie i distributori di benzina appaiono come corpi estranei che rompono un’armonia, per l’altro lasciano emergere la forza della natura, che tende a ristabilire l’equilibrio riprendendosi lo spazio che le è stato sottratto. La lotta tra lo sfruttamento delle risorse della terra che non tiene conto delle conseguenze e il tentativo di ristabilire un equilibrio si traduce così, in chiave allegorica, nella lotta tra il bene il male, altro soggetto delle rappresentazioni religiose tanto caro a LaChapelle.

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