Erede di Kafka, Lynch è stato il più grande poeta dei luoghi che il cinema abbia mai avuto
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nelle sue famose lezioni su Kafka, Vladimir Nabokov spiegava la Metamorfosi mostrando una piantina della casa di Gregor Samsa: ricostruiva la sala da pranzo della famiglia; la posizione del bagno, della stanzetta di Gregor; nella stanzetta, la disposizione dei mobili, la posizione del letto. L’intento è chiaro: in Kafka i luoghi sono importanti come e più dei personaggi. Per capire Kafka non serve immedesimarsi nei processi psicologici di Gregor o di sua sorella o sua madre o suo padre, ma capire la natura del posto in cui si svolge quella vicenda: una casa su cui è stata gettata una qualche maledizione metafisica. Kafka non è uno scrittore realista, ma è tutt’altro che uno scrittore astratto. Le sue violazioni del codice di verosimiglianza non sono generiche né concettuali: Kafka non annulla la realtà, ma la deforma, la strattona, la risistema, la ricompone. Una realtà che, pur essendo “inventata”, ricostruisce le sue leggi, e la sua coerenza interna. Quello che conta non è il personaggio, ma il luogo. Kafka è un poeta di luoghi – e non sarà un caso che, dei suoi tre romanzi, ben due portino il loro luogo fin nel titolo.
Sarebbe bello fare lo stesso esercizio applicandolo ai film di David Lynch, che di Franz Kafka è forse quello che ha più sensatamente raccolto l’eredità.
Riscrivere le favole
Su Lynch si sono dette tante cose: pochi autori sono stati in effetti così impattanti nell’immaginario collettivo. Ma quella che forse non viene sottolineato abbastanza è che Lynch è stato il più grande poeta dei luoghi che il cinema abbia mai avuto.
Come Kafka, anche Lynch non è uno scrittore di personaggi. Le psicologie dei suoi caratteri sono univoche, monodimensionali, spesso macchiettistiche. Dall’agente speciale Dale Cooper di Twin Peaks, con i suoi messaggi a Diane e le sue monumentali colazioni, fino alla candida Betty di Mulholland Drive, dallo stralunato Jeffrey Beaumont di Velluto blu ai cromati, carichissimi, rotocalcheschi Sailor e Lula di Cuore selvaggio, i protagonisti di Lynch sono sempre dei candidi buontemponi, persone di animo buono e di sani principi, di cui ci innamoriamo per la bontà e l’innocenza che esprimono, ma che in nessun momento ci risultano ambigui, perturbanti o imprevedibili. Sono, dostoevskianamente parlando, dei magnifici idioti. Non sorprendono, non cambiano strada, non prendono svolte che non siano in linea con ciò che hanno promesso di essere già dal minuto uno. Il loro sistema di valori non viene sostanzialmente mai messo in discussione né tantomeno contestato o ribaltato. La vera natura dei protagonisti di Lynch è in fondo sempre quella di una favola: bambini nel bosco. Ogni film di Lynch è la storia dello smarrimento di un bambino in un bosco stregato.
Ciò che li rende interessanti non è la loro fisionomia umana, ma il fatto che Lynch collochi questi candidi innocenti in luoghi completamente inadatti a loro. Come uno scienziato dell’immaginario, David Lynch spedisce le sue tenere caricature in luoghi dove mai si sognerebbero di andare: tante Cappuccetto Rosso mandate in missione nelle zone più estreme della mente. Cuore selvaggio era una dichiarata rivisitazione del Mago di Oz. Ma cosa sono, in fondo, tutte le opere di Lynch, se non stupende riscritture di favole?
I protagonisti veri
Il presupposto resta sempre uno solo: quello che conta è il Bosco.
I veri protagonisti di Lynch non sono le persone, ma i luoghi: il protagonista di Eraserhead non è Henry, ma la sua casa; il protagonista di Cuore selvaggio è il deserto della California; il protagonista di Twin Peaks è la Loggia Nera; il protagonista di Mulholland Drive è Los Angeles; il protagonista di Inland Empire è un set cinematografico su cui – come per l’appartamento della Metamorfosi kafkiana – è caduta una maledizione. Sono tutti boschi, foreste magiche, dove si svolge il più archetipico dei road-movies.
David Lynch ha capito che i luoghi sono molto più importanti delle persone. Ha capito che la geografia è una disciplina molto più interessante della psicologia. Ha capito che i luoghi durano di più, e hanno quindi una quantità di strati e rispettivi, spettrali ecosistemi che gli umani non fanno in tempo ad accumulare. I luoghi sono regni; e ogni regno ha la sua popolazione, e instaura la sua legge. Ogni bosco è un mondo, e in questi mondi Lynch manda i suoi esploratori: non agguerriti scienziati, militari ruspanti o reporter in odore di pulitzer, ma gente tenera e comune, che in quei boschi proprio non ci dovrebbe andare.
Notte metafisica
Scrive Freud che il “perturbante” è “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”; e aggiunge: perturbante è ciò che è dove non dovrebbe essere. È una perfetta definizione del cinema di Lynch: persone, cose, situazioni che non sono mai dove dovrebbero essere; macchiette americane, icone prese di peso da Dallas e da Happy Days che vengono mandate in avanscoperta in incroci impossibili. Tutto Twin Peaks è un cliché dirottato in un incubo; una Signora in giallo che s’incaglia su un iceberg oscuro e sprofonda in una notte metafisica.
Sarebbe tutto assurdo, se uno non si accorgesse che la vita è proprio così: niente è mai come dovrebbe essere, la realtà che viviamo non accetta di farsi addomesticare da un genere, tutto ci è familiare e nel contempo tutto ci è lontano e straniante come la deriva di un pianeta. Gli eventi si svolgono sempre nei pressi di una contraddizione, di situazioni non allineate; non esiste il comico e non esiste il tragico, esiste uno stato sempre diverso e sempre inedito di sovrapposizione di realtà. Viviamo in un continuo spiazzamento ed è solo chi guarda a decidere cosa è incubo e cosa invece è rivelazione.
Dovremmo smettere di usare la parola “surreale” (uno fra gli aggettivi più dannosi degli ultimi tempi), e guardare Lynch per quello che è: il Grimm della nostra epoca, un cantastorie per bambini incapaci di maturità; un autore in cui ritroviamo quello stato di meraviglia che abbiamo perduto ma a cui continuiamo ad anelare. Laura Palmer scrive nel suo diario: “Odio gli asparagi: vuol dire che non crescerò mai?”. Dovremmo riscoprire Lynch come un grande autore realistico, un poeta che procede per esagerazioni e per picchi, consapevole – come sono appunto i bambini – che quello che ci piace più di ogni altra cosa non è il riconoscimento del noto, ma il contraccolpo dell’ignoto. La realtà della realtà. Il regista che tutti amano definire visionario ci ha regalato alcune delle sequenze più carnali che si possono vedere in un film: le monumentali colazioni di Cooper al diner, il ritrovamento di un orecchio in un campo spelacchiato in Velluto Blu; in Elephant Man un pianto disperato scaturito da un piccolo gesto di cortesia; in Mulholland Drive una tra le scene più erotiche della storia del cinema.
Il metodo
Di Lynch mi ha sempre affascinato il metodo di lavoro: sedersi davanti a una brocca di caffè con molto zucchero, molte sigarette, un blocco per appunti e tanto tempo libero davanti. “Andare a pesca” – diceva lui – “muoversi in acque profonde”. Nessun autore è mai stato più lontano dalla narrazione dell’artista maledetto. Lynch ha sempre ribadito che l’estetizzazione del dolore gli ripugnava, che la sofferenza non serve a niente, che quell’apologia del tormento che sempre si accompagna al cliché dell’artista era una scemenza, una “patologia di origine francese”. Lynch era un romantico, un goethiano, un thomasmanniano: uno convinto che solo nella calma, lontano dalle ansie, si possa fare vero cinema: un’arte che non sia piagnisteo, recensione del già noto, scavo autopsicologico. È sempre stato convinto che, per vedere, bisogna annullarsi, ammutolirsi. Come Eliot, pensava che l’arte è sempre impersonale: l’opera deve liberarsi dalle scorie del suo autore, cancellare le tracce, muoversi verso l’esterno. Scoprire il fuori. Raggiungere forme autonome e assolute. Fare quello a cui l’arte sempre dovrebbe ambire, e che a Lynch è indubbiamente riuscito: scrivere la mitologia del proprio tempo.
© Riproduzione riservata