Pubblichiamo un estratto del libro “Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell'innocenza” di Alessandra Sardoni, pubblicato da Rizzoli, 2017. 

Il comitato parlamentare paritetico – diciotto senatori e diciotto deputati delle commissioni Affari costituzionali – si insedia il 1° agosto 2001, meno di tre settimane dopo i fatti di Genova. La formula deliberata è, come abbiamo visto, quella dell’indagine conoscitiva. Il presidente è Donato Bruno, avvocato e deputato di Forza Italia. I vicepresidenti sono Franco Bassanini, senatore dei Ds e Gian Franco Anedda, deputato di Alleanza nazionale. I segretari sono il deputato Gianclaudio Bressa della Margherita e il senatore Graziano Maffioli del Biancofiore, formazione centrista riconducibile a Pier Ferdinando Casini, che in quella fase è presidente della camera.

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Luciano Violante ha voluto a tutti i costi far parte del comitato, nonostante, a differenza di tutti gli altri componenti, non fosse membro della commissione Affari costituzionali. È insomma l’unico ad avere diversa provenienza parlamentare ed è anche il principale fautore di una tempistica veloce, benché il perimetro dell’indagine sia largo: «I fatti accaduti a Genova nei giorni 19, 20, 21 luglio 2001 in occasione del vertice del G8», recita il frontespizio dei resoconti stenografici.

La dicitura stessa, non limitata alla Diaz e a Bolzaneto, consentirà una distribuzione dell’attenzione non del tutto proporzionata agli eventi. E sposterà, in parte, il dibattito anche sulla questione dei rapporti politici con il movimento no global e sulle responsabilità dei suoi leader Vittorio Agnoletto e, per i disobbedienti, Luca Casarini, accusati di non aver saputo gestire la piazza malgrado la lunga trattativa. I tempi in effetti saranno rapidissimi. Dieci sedute, ventisette audizioni. La più attesa è ovviamente quella «del direttore generale del dipartimento della pubblica sicurezza e capo della polizia Giovanni De Gennaro», mercoledì 8 agosto.

L’impostazione dei lavori è chiara fin dall’inizio: escludere il livello politico, lasciare il campo interamente alla magistratura, dunque al piano delle eventuali responsabilità penali e ai tempi – necessariamente lunghi – del loro accertamento. Indagini disciplinari interne ai singoli corpi – polizia, carabinieri, polizia penitenziaria, guardia di finanza – potranno verificare, su un binario parallelo, eventuali abusi ed eccessi e comminare sanzioni, per l’appunto disciplinari. Peraltro, di quest’ultima parte disciplinare non si è mai riusciti a sapere nulla, come lamentano gli avvocati di parte civile e dei ricorrenti presso la Corte di giustizia europea.

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Fin dalla prima audizione il dibattito si concentra sull’impossibilità di ricostruire la linea di comando, premessa e anche sostanza dell’irresponsabilità. L’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola informato a posteriori, il capo della polizia informato, ma non decisore.

«Forse sarebbe opportuno che il capo della polizia, prima di tutto, spiegasse quali sono le funzioni del capo della polizia, perché non tutti qui le conoscono, altrimenti rischiamo di fare alcuni errori di valutazione» propone Luciano Violante nel suo primo intervento di quel giorno. 

È proprio la risposta di De Gennaro a far capire che Violante sta indicando una via di fuga, lanciando una ciambella di salvataggio. Una sorta di premessa epistemologica che diventerà immediatamente l’argomento fondante, la base della deduzione di irresponsabilità.

«Obiettivamente credo che qualcuna di queste domande vada un po’ oltre quelle che sono le possibilità di conoscenza del capo della polizia» osserva De Gennaro. «Nel nostro sistema il punto di riferimento centrale sono le autorità di pubblica sicurezza. […] Il direttore generale della pubblica sicurezza ha sì una funzione di coordinamento, ma vorrei ricordare, se possibile, che non c’è una linea verticistica di comando. Il nostro non è un sistema di organizzazione gerarchico […]». E conclude: «[…] io ho sottolineato che non ho nessuna autorità: sono il prefetto e il questore ad avere l’autorità». I nemici coglieranno l’assist di Violante e la schiacciata di De Gennaro.

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Su «Panorama» del 27 settembre 2001, in un pezzo di commento alle conclusioni del comitato paritetico, intitolato L’intoccabile De Gennaro, Lino Jannuzzi cita lo scambio di battute di cui sopra come «uno dei siparietti comici della sceneggiata», lavori che, a suo avviso, hanno in partenza lo scopo di salvare il capo della polizia che altrimenti avrebbe fatto cadere anche la testa del ministro dell’Interno.

Tuttavia nel comitato nessuno fa vere obiezioni, neppure quando il capo della polizia, svolgendo il tema dei suoi poteri, cita la legge 121/1981 di riforma della polizia, a sostegno della tesi di una loro ridotta estensione. La legge in realtà stabilisce come il prefetto dipenda gerarchicamente dal ministero dell’Interno mentre il questore «dipende funzionalmente dal prefetto e gerarchicamente dal capo della polizia direttore generale della polizia di Stato».

Coerentemente con la linea scelta da De Gennaro, del resto, la responsabilità oggettiva è stata assegnata al questore di Genova Colucci, che infatti (così come il capo dell’Antiterrorismo La Barbera) si presenterà davanti al comitato dopo la rimozione dall’incarico.

Sia pure dimezzato, o per questo, Colucci azzarda una confutazione dell’interpretazione di De Gennaro: «La legge parla chiaro e si riferisce all’autorità nazionale di pubblica sicurezza che è il ministro, il quale dà gli input politici al prefetto e altri input tecnici al direttore generale del dipartimento, il quale li trasferisce in capo al questore. Forse ci si dimentica che il direttore generale del dipartimento è anche il capo della polizia. Quindi c’è una sorta di rapporto gerarchico fra capo della polizia e questore». Aggiunge Colucci insieme ai ringraziamenti al capo della polizia che «gli è sempre stato vicino» che «sarebbe da sciocchi pensare che un evento straordinario possa essere delegato al questore senza alcuna preoccupazione».

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La questione è solo apparentemente tecnicistica. E infatti l’interpretazione della legge 121/1981 torna nella relazione di minoranza presentata dall’Ulivo, dove si ricorda che il ministro dell’Interno, in base alla riforma della polizia, «è responsabile della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica», emana non solo direttive ma anche «specifici ordini nei confronti del dipartimento di pubblica sicurezza». Insomma, una volta di più questa controversia implicita allude al classico simul stabunt simul cadent: se toccate il capo della polizia e direttore del dipartimento di pubblica sicurezza, cade il ministro dell’Interno.

Ancora oggi, del resto, a sentire voci autorevoli del centrosinistra anagraficamente compatibili con quella fase, non ci sono dubbi sul fatto che la responsabilità politica fosse a carico di Scajola.

Riannodare i fili delle audizioni, ripercorrendo i lavori del comitato paritetico, è assai istruttivo per capire quello che è accaduto dopo, o quello che non è accaduto. Quali versioni siano state date per buone. O quali fatti non siano stati incrociati, confrontati fra loro.

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Il 7 settembre il comitato ascolta il ministro dell’Interno. Scajola difende l’operato delle forze dell’ordine dalle accuse di  Massimo D’Alema: «Inaccettabili le affermazioni di chi è giunto a definirlo rappresaglie di tipo cileno». E più in generale respinge «ogni illazione che l’operazione (perquisizione della Diaz, N.d.A.) sia conseguente a una decisione politica».

Più insidioso, per il capo della polizia e la linea di difesa che ha preso forma nel comitato, è un altro passaggio dell’audizione del ministro, quando osserva come «non ci sia stata confusione tra competenze degli organi centrali e determinazioni degli organi locali. D’altra parte,» aggiunge «sarebbe fuorviante immaginare che un evento di tale portata potesse essere lasciato alle sole autorità locali senza il necessario supporto di efficienza e ausilio di un organismo esperto e collaudato come il dipartimento di pubblica sicurezza».

I fatti della Diaz e di Bolzaneto dentro l’indagine sui fatti di Genova non hanno in realtà lo spazio che prenderanno in seguito grazie anche all’attenzione dei media, dai giornali alla tv, dal cinema ai fumetti e alla pubblicistica. Nonostante lo shock iniziale, quelle storie, quei racconti in prima persona saranno restituiti alla loro dimensione tragica, violenta, impensabile, con una certa lentezza.

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Nei resoconti parlamentari risalta invece il profilo burocratico, perfino una certa pedanteria dissonante e con punte di grottesco. Il ministro dedica pochi passaggi alla Diaz, usa la parola «amarezza», chiede per le forze di polizia sostegno e appoggio, che peraltro saranno dati da tutti. Restano voci nel deserto invece quelle di chi, come Gianclaudio Bressa della Margherita, osserva che sì, c’è il piano dei singoli, ma «il fatto deve essere indagato fino in fondo per la gravità che ha rappresentato nel preciso momento in cui è avvenuto».

Il documento della maggioranza, non negato esplicitamente da quello dell’Ulivo, dà per acquisito che gli eccessi della polizia alla Diaz e la stessa perquisizione fossero una reazione a situazioni di oggettivo pericolo. Non sarà mai ascoltato neppure il vicepremier, Gianfranco Fini, protagonista di molte delle domande poste ai ventisette auditi dal comitato parlamentare. «La maggioranza del comitato si è opposta all’audizione di Gianfranco Fini» metterà a verbale l’Ulivo nel documento di minoranza.

La ragione della sua presenza a Genova viene motivata da Scajola con la necessità di partecipare al suo posto (il titolare del Viminale aveva declinato) alla registrazione di Porta a Porta con Bruno Vespa in trasferta; e dal generale dei carabinieri Siracusa come un saluto personale del vicepremier poi prolungatosi per ragioni di sicurezza: «A causa dei disordini di piazza l’onorevole si è fermato a colazione».

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Altre audizioni di esponenti di governo la dicono lunga sul rimpallo delle responsabilità. Come il ministro della Giustizia Castelli che dichiara: «All’interno della caserma di Bolzaneto erano impegnati agenti di diverse forze di polizia […] Era evidente che mi trovavo lì solo ed esclusivamente per quanto riguardava la polizia penitenziaria e quindi non volevo dare assolutamente l’impressione di interferire con altre forze dell’ordine che non fossero sotto la mia responsabilità». La precisazione dal punto di vista del guardasigilli è importante: a Bolzaneto erano stati «tradotti», come si dice nel gergo tecnico, i novantatré arrestati della Diaz che già avevano subito violenze e minacce.

«Posso riferire di aver visto alcune persone che stavano in piedi con le gambe allargate e la faccia contro il muro. C’era un’unica cella per quello che ho visto io, perché l’altro spazio era riservato ai carabinieri e quindi non ci sono andato perché non era di mia competenza.»

Prima del ministro è stato Alfonso Sabella a dichiarare che i novantatré della Diaz furono portati a Bolzaneto nella notte tra il 21 e il 22, ma consegnati formalmente alla polizia penitenziaria solo la sera di domenica 22, declinando con questa precisazione ogni addebito sulle vessazioni e vere e proprie violenze inferte agli arrestati, in una relazione considerata da quasi tutti i membri del comitato «lacunosa».

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Il ministro dice di non aver assistito a pestaggi, di non aver sentito «alcun odore particolare né di urina né di feci, né di detersivi come se qualcuno avesse lavato»; racconta di aver visto nella cella una decina di ragazzi da una parte e una ragazza dall’altra «in quell’atteggiamento che ho dichiarato e che in qualche modo, mi ha anche un po’ stupito; quindi ho chiesto come mai… Mi è stato risposto – leggo – che avevano fatto così per evitare il pericolo che gli uomini potessero in qualche modo dare fastidio alla ragazza. Questa è stata la risposta dell’agente che si trovava nella stanza».

È evidente che la presenza di un ministro mentre avvenivano pestaggi e altre forme di coercizione è elemento di imbarazzo. E che il non aver visto nulla, come il guardasigilli ripete, non può che amplificarlo. Il quadro che viene fuori da questa audizione è di una caserma con varie stanze usate come celle per molte persone affidate alla polizia penitenziaria, ai carabinieri o alla polizia. E il guardasigilli preoccupato principalmente di evitare sovrapposizioni o invasioni di campo.

Se la linea è chiudere in fretta i lavori del comitato e salvare politicamente Scajola e De Gennaro, è tuttavia molto difficile che qualcuno possa chiedere le dimissioni di Roberto Castelli o rimuovere Alfonso Sabella. La cui audizione il 29 agosto è stata altrettanto disarmante. «Per quel che mi riguarda tutto si è svolto tranquillamente, così come previsto» è l’esordio. Seguono lievi correzioni di tiro: «Ero convinto che, salvo qualche piccolo eccesso che può essersi verificato, la macchina avesse tenuto bene. Purtroppo mi sono poi scontrato con una realtà apparentemente diversa da quella che mi ero rappresentato».

Il comitato assiste al rimpallo delle responsabilità tra i diversi corpi presenti nella caserma di Bolzaneto. A una sequela di dichiarazioni difensive che le inchieste riveleranno insostenibili: «Non ho letto sui giornali una sola parola di ragazzi provenienti dalla scuola Diaz che hanno detto di essere stati trattati male a partire dalle ore 22 della domenica». E ancora Sabella dichiara che «l’organizzazione ha tenuto», che era la polizia a non aver previsto personale femminile per accompagnare le ragazze fermate in bagno, compito assunto dalla polizia penitenziaria, che di «falsità ne sono state dette molte» e che «avvenimenti riportati dai giornali sono radicalmente falsi […] lo potrò testimoniare».

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Affermazioni temerarie smentite clamorosamente dalla sentenza della Cassazione che nel giugno del 2013 ha condannato sette persone (anche appartenenti alla polizia penitenziaria), tra cui due dirigenti donne, per gli abusi di Bolzaneto, una percentuale minima rispetto al numero iniziale degli indagati, anche a causa della prescrizione.

Eppure né Castelli né Sabella saranno indagati né verranno loro addebitate responsabilità gestionali o politiche. Né alcuno ne chiederà le dimissioni. 

I lavori si concludono il 20 settembre, in un clima molto diverso da quello in cui tutto è cominciato. Il trauma dell’11 settembre ha posto altre questioni, facendo tramontare di colpo i movimenti antiglobalizzazione o per lo meno rallentandone l’ascesa. La sicurezza internazionale, il dibattito su diritti e sicurezza assorbono le energie delle forze politiche. Ci sarà Guantanamo su cui discutere, Abu Ghraib, il water boarding, altre immagini, altri dilemmi, altri retaggi ideologici, altri bersagli più grandi e in un certo senso più circoscritti per i movimenti, come George W. Bush e Tony Blair.

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I tre documenti che chiudono l’indagine parlamentare catalizzano solo in parte l’attenzione dell’opinione pubblica. Sarebbe stato imbarazzante per tutti, in particolare per l’Ulivo, convergere sulla lettura della Casa delle Libertà, che non rinuncia a porre l’accento sul successo del G8, nonostante lo stesso Scajola abbia ammesso amarezze e perplessità specie per la perquisizione alla Diaz.

«Il vertice ha conseguito tutti gli obiettivi prefissati sia sotto l’aspetto dei contenuti, sia sotto l’aspetto logistico amministrativo sia sotto quello della tutela dell’ordine pubblico nonostante inerzie riferibili al precedente Governo» è scritto nella relazione della maggioranza. «Relativamente all’episodio della scuola Pertini (ex Diaz) il Comitato rileva la legittimità del comportamento delle Forze di Polizia. Si rilevano altresì taluni difetti di coordinamento sul piano decisionale ed operativo».

Siamo di fronte a una prima pattuizione tra governo di centrodestra e opposizione di centrosinistra non dichiarata, e del resto non potrebbe esserlo. Una casella chiave, anzi due, mantenute in una legislatura che sarà intera, nata e sviluppata nello schema dell’alternanza, ma anche la più lunga della storia della Repubblica. Si trattava, nella logica dei postcomunisti, di sopravvivenza da ottenersi anche grazie a relazioni trasversali, che infatti resisteranno.

Violante nella seduta conclusiva ribadisce la fiducia nella polizia, cita i meriti dei dirigenti, le loro storie fatte di arresti eccellenti e successi nell’Antimafia. Critica la strategia del dialogo con il Genoa Social Forum perché i suoi leader mai avrebbero potuto garantire per una rete così ampia. Accusa la destra e i suoi tentativi di manipolare o rappresentare un settore della polizia.

A questo proposito, parole molto dure campeggiano nella relazione di minoranza: An voleva generare un clima di paura nella città di Genova; tentare di costruire un proprio rapporto politico privilegiato con le forze dell’ordine. Il terzo documento, quello di Rifondazione, critica governo e capo della polizia. E rinvia a quella commissione di inchiesta che sarà un caso politico nel 2007. E che non si farà mai.

i responsabili sardoni

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