Prima venne “Nando” Mericoni, in arte Santi Bailor che da Roma sognava Kansas City nel film di Steno con Alberto Sordi che lasciava la romanità per l’americanismo, poi, anni dopo, in un processo inverso, da San Diego, è arrivato Dan Friedkin e ha scelto Daniele De Rossi proprio per recuperare la romanità.

Dietro il problema dei tre uomini in difesa di José Mourinho che aveva costruito un assedio in campo, allo stadio e fuori, c’era una romanità ad aria condizionata. Da due mesi, con quattro uomini dietro, De Rossi l’ha liberata. È un paradosso che ci spiega la nuova Roma in vista del derby. Poi, per uno scherzo del destino, per una volontà del caso, ognuno si sceglie la sua versione, la romanità trova nell’innesto americano una nuova fioritura: era successo con Tomas Milian nella serie di film dove interpretava Nico Giraldi doppiato dalla voce di Ferruccio Amendola, è successo a De Rossi con Dan Friedkin e soprattutto con sua moglie Sarah Felberbaum.

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La romanità romantica

Quindi una/o americana/o a Roma aiuta, valorizza, accresce, il romano, la romanità e il romanzo. Se anni fa Daniele Rossi – portatore di una romanità litoranea rispetto a quella aureliana di Francesco Totti – sembrava rifiutare l’americanismo: «Ho provato a fare surf, ma preferivo giocare a carte con i vecchi», era solo perché il futuro non era ancora entrato in lui, infatti non era ancora capitano né allenatore. Perché come dice Tina Anselmi interpretata da sua moglie Sarah Felberbaum: «Se vuoi cambiare il mondo, devi esserci». E lui ce sta e come.

Sta al centro del progetto come un tempo la chiesa di Rudi Garcia stava al centro del villaggio. Da due mesi e mezzo porta risultati, ha risollevato squadra e piazza, trovando nel quattro a zero al Brighton di Roberto De Zerbi il punto più alto. Incartando uno dei migliori allenatori del futuro, uno con narrazioni e richieste di grandi squadre, ha dimostrato che non è solo la bandiera, l’idea romantica di romanità, ma che è anche altro, come in tanti si stanno accorgendo.

Dimenticate il De Rossi che dopo aver calciato il terzo rigore nella finale mondiale contro la Francia, nel 2006 in Germania, dice tra i denti al portiere Fabien Barthez, appena battuto, «Mò tirace i guanti», ora c’è un quarantenne con le mani in tasca che davanti all’esaltazione – tipica di molto giornalismo sportivo televisivo per la vittoria in Europa League contro il Brighton – del prolungamento di contratto, alla nascita di un nuovo profeta romano, risponde: «fai il bravo, stai buono», incrociando il «boniii» di Maurizio Costanzo e Aldo Fabrizi. A riprova di una maturità romanesca che passa dalle reazioni di strada – negli anni non sono mancate le gomitate – a quelle aristocratiche.

La romanità vaticana

Ma ora c’è il derby, una partita diversa che scatena vecchi demoni e ne genera di nuovi, condizionando la stagione. Il vantaggio è che De Rossi lo sa, più del nuovo allenatore della Lazio, Igor Tudor subentrato al dimissionario Maurizio Sarri. È lontanissimo il derby che lo vide sostituito, insieme a Francesco Totti, dal sor Claudio Ranieri – romanità vaticana – per eccesso di sentimento: «Erano già ammoniti e sentivano troppo il derby, non erano sereni e non giocavano come sanno. Ho preferito cambiare e rimettere l'assetto di sempre, è stata una scelta anche tecnica: ho sempre detto che sono i giocatori che fanno la squadra e con loro due non eravamo al cento per cento, per questo ho preferito toglierli. Però sono sempre due punti di riferimento, il capitano e capitan futuro: saranno dispiaciuti per la sostituzione ma contenti, sanno che cerco di fare sempre il bene della Roma».

La romanità vittimista

Togliere la romanità per far bene alla Roma. Era la lezione di Ranieri. De Rossi sembra sapere tutto, ha un linguaggio diverso sia dal suo predecessore nei derby e sulla panchina della Roma, il José Mourinho che aveva sposato la romanità vittimista da periferia, il «semo contro tutti» che aveva fatto breccia per il tono e le interpretazioni, ma era più cinema che calcio, più teatro che tattica, e la Roma giocava maluccio; invece De Rossi ha scelto di «sciallare» con brio, aggiungendo all’american-romanità l’Egitto di El Shaarawy, insomma: Roma imperiale. Er romano der monno.

De Rossi alzando la linea di difesa ha anche alzato il livello della romanità, meno guerre verbali e più costruzione tattica, meno semplificazioni e più riflessioni (ma tutto questo ce lo spiegherà tra qualche anno, magari in un libro autobiografico, tra difesa a quattro e offensiva della estetica della romanità, il suo De Rossi Gallico). L’ossessione derossiana sta sott’acqua, per un paradosso il suo essere diretto è più costruito delle guerre di Mourinho. Ma ora c’è il derby. E De Rossi ne ha giocati 31 da calciatore, ha segnato due volte e il primo l’ha vinto, era il lontanissimo 2003.

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La romanità malinconica

Ma in panchina «Todo cambia», come ha imparato a cantare in Argentina con Mercedes Sosa, e ultimamente ha sfoggiato un discreto spagnolo per abbracciare l’ex compagno di squadra Osvaldo, e il suo dolore. Adesso De Rossi, il maturo, l’astuto, il saggio, deve mettere alla prova la sua neoromanità nel derby, regolandola su quella del suo capitano: Lorenzo Pellegrini, che viene da Cinecittà Est e sembra avere la romanità malinconica di Gabriella Ferri, è coriaceo ma si perde. In un derby ha segnato di tacco e su punizione, insomma la romanità applicata alla Lazio lo esalta. Anche se non accade da un po’, che segni e si esalti con la Lazio.

La Roma non vince dal 2022. Quindi De Rossi deve farsi carico di invertire anche questa altra – pesante – storia negativa. Deve portare il suo pensiero romano verticale ad assediare Tudor e la Lazio come ha assediato De Zerbi e il Brighton, ma con un carico emotivo maggiore e un coinvolgimento diverso. Mentre in Europa League, doveva vincere giocando contro una squadra guidata «da un allenatore diverso da quasi tutti gli altri, perché per prepararla ci metti il doppio del tempo» e contro il partito dezerbiano, nel derby gioca contro un allenatore simile a quello che l’ha preceduto, Mou, quindi gioca due volte contro il suo passato, dove pure ci metti il doppio del tempo per scegliere la tattica e poi a quale tipo di romanità devi affidatte.

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La romanità di Palazzo

Sicuramente l’andare oltre l’insopportabile lamentismo mourinhiano – che compattava l’Olimpico mentre disgregava lo spogliatoio con accuse, rimandi, gogne – ha pagato. De Rossi in questo è stato molto andreottiano – una romanità di Palazzo – ha scucito i toni alti del portoghese e c’ha cucito i risultati, le prestazioni, i recuperi, a cominciare proprio da Lorenzo Pellegrini, un cross anche per Luciano Spalletti. Tanto che Bruno Conti – romanità litoranea – qualche giorno fa ha detto: «Per me Daniele è sempre stato un allenatore in campo, per l’intelligenza tattica e per le scelte che faceva: quando vedevo Carlo Ancelotti in campo avevo la stessa sensazione». Ma Ancelotti è papesco, mentre De Rossi è trilussiano: «Chi a raccoglier allori non s’adopra, non può sognare di dormirci sopra». Quindi, prima tocca vince er derby.

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