Un tram chiamato derby, potrebbe essere l’incipit di un servizio di Beppe Viola, che su un tram ci trascinò Gianni Rivera che poi, come se fosse un campo di terra battuta, non ci mise più piede. Era il 15. Enzo Jannacci cantava che «l’avvenire è un buco nero in fondo al tram» quasi che fosse un universo e che «nessuno si occupa di quelli che prendono il tram», sarà per questo che i calciatori non ci salgono: per paura di non essere più visti? Ma oggi chi li costringe?

Oggi che non han bisogno dei giornalisti, dei giornali o delle tivù. E che nessuno marca più a uomo, come un tempo il lungagnone Beppe Viola o il centralissimo dell’avverbio Bruno Pizzul. No, niente da fare, mi spiace, ho qui fuori la mia Lamborghini: vuole un passaggio? Difficile spiegarlo a Delio Tessa che, sciagurato, cantò il 32 negli anni Trenta, “Inno al tram”, con crocicchio.

Il numero 16

A noi tocca prendere il 16 dal Duomo a San Siro. Invocando calciatori, immaginando fermate che non ci sono, sostituendo quelli che abitualmente prendono il tram con chi non lo prenderà mai. Un sogno come quello di Zazie, chissà. Raymond Queneau che passa a Olivier Giroud. Perché è facile immaginare Nereo Rocco salire e difficilissimo trovarsi Stefano Pioli? Non perché adesso sono maratoneti e prima no.

Un Giuan da Cusano Milanin Trapattoni poteva prendere il tram, anche all’apice del successo, perché riteneva e ritiene la vita un momento di passaggio, una corsa tra due o più fermate, ma Theo Hernandez non ne vuole sapere di prendere il tram, lo sanno tutti, verrebbe meno alle narcisate di fascia, sarebbe una perdita di vocazione, almeno così la racconterebbe Maurizio Milani, l’ultimo poeta rimasto dopo l’uscita dal campo di Franco Loi: «Sü ‘n tram û ‘ist in faccia la belessa, / un tram südâ, de cappell e giacch, / de impiagâ cuj face de la tristessa, / e de dònn grass, de bamburín cuj tacch» (Su un tram ho visto in faccia la bellezza, / un tram sudato, di cappelli e giacche, / di impiegati con le facce della tristezza, / e donne grasse, e ombelichi sui tacchi).

Non è facile immaginare nemmeno Simone Inzaghi su un tram, e poi il 16 non passa sotto casa sua. Ma per Piazza Cordusio, per dire, dove Vittorio De Sica inseguiva in bicicletta il tram della sua Mariuccia (Lya Franca) che guardava e sorrideva, mentre lui cantava “Parlami d'amore Mariù” ne “Gli uomini, che mascalzoni...”.

Lì, dove anni dopo Jacques Perrin veniva scarrozzato in spider dal padre che cercava di corromperlo, seguendo la trama di Alberto Moravia che Mauro Bolognini illustrava, e come lo spieghi a Loftus Cheek che è uno da aereo, con la faccia da Concorde avrebbe detto Viola. È difficile far salire un calciatore su un tram, anche se lo chiami derby. Troppi perché, il calciatore la vede come una perdita di status, sarebbe più facile fargli capire Oppenheimer.

Rozzano

Perché un tram è uno schema difficile da introiettare: troppe triangolazioni, e chi lancia Lautaro? Un tale, un parrucchiere, brasiliano si intende – a Rozzano nessuno taglia più niente, né mette in piega – che prende sempre il 16 per andare allo Stadio, fa notare la differenza, come se fosse Pozzetto, un calciatore anche quando è infortunato non è mai alla canna del gas, noi parrucchieri sì.

Come lo spieghi a Thuram? A suo padre sì, uno che poteva parlare con Franco Parenti e innamorarsi della Melato, ma questo ragazzo qua, no, per quanto elegante e segnante, non lo prende mica il tram. Certo che no. Su un tram rischi di capire Milano, oddio capire, sfiorare, rischi di farti una idea che andare allo stadio in questa città non è solo andare allo stadio, ma è ascoltare, come i corsi per imparare le lingue, ecco i tram sono corsi di lingue per imparare Milano, che ne parla sempre troppe.

Una volta a San Paolo – che poi è Milano alla fine del mondo come dice Manu Chao – capitò di incontrare uno che aveva un ristorante sui Navigli, e non parlava brasiliano, ma lo capivano benissimo. È la storia di Ronaldo al rovescio. O di Adriano, che era un tram: abbatteva i difensori che gli attraversavano sui binari.

Ah, trovarli i tram come Adriano. Oggi ci sono i Barella: efficienti, diretti, con tutti i comfort: dal dribbling al passaggio illuminante, non si fuma a bordo e giù fino all’area di rigore in pochi scambi. O i Leão, tram di Lisbona, con il carico di Pessoa, Wenders e Pulisic che non capisce ancora bene la storia degli eteronimi di fascia, chiedendo but are they like CIA agents? E l’imbarazzo dello spogliatoio, senza nemmeno un Costacurta che gli fa rivedere il tutto al Var.

Piazza Piemonte

Intanto siamo a Piazza Piemonte, qua cominciò tutto, no, non il sacchismo, e meno ancora l’herrerismo, ma i grattacieli, due, e gemelli, che sembrano centrali difensivi del Belgio, giusta distanza, tenuta del tempo, e ottima copertura della storia. E Rade Krunić che passa di lato, o almeno sembra lui. Dice che in Bosnia gli è capitato di prendere un tram una volta, qualche anno fa, ed è come guidare a Le Mans.

Brera direbbe che sui tram si modificano gli uomini, e che salendo e scendendo dai tram si può diventare sportivi o almeno capire il fuorigioco. Poi all’improvviso, ecco la Bestia, il Tempio, la Cattedrale – l’altra –, lo Stadio. Ingombrante più di Trump. Un monte da scalare.

Un tram enorme, chiamato derby. Che cosa è San Siro se non il capolinea di tutti i tram, i desideri e i gol? A bordo, si comincia, novanta minuti più recupero con intervallo. Guardando a orecchio in fondo alle fasce si vede anche l’ippodromo. Strisce come binari, direzioni segnate, a meno che al conducente non gli viene di scartare di lato e bucare le fermate, ma poi la direzione è una sola: il gol.

Ecco lo stadio

San Siro, inteso come tram e poi come stadio, quella costruzione che ci dà del pane, diceva Beppe Viola, è un mezzo di trasporto di esasperato romanticismo, poi dipende dalle prestazioni, ma di solito è così. Anche sessualità, quando giocava Gullit, o quel Ronaldo.

Un grosso baule di a) potenziale altamente narrativo; b) gioventù per romanzi popolari; c) lasciare libero il pareggio, grazie. San Siro, inteso come tram e poi come stadio, è un viaggio niente male. Un bel posto di Milano dove andare in tram. Dal piazzale Axum si vede anche la Mongolia, stando alla testimonianza di Paolo Rossi, comico, interista.

Mentre Ottorino Vincenzi sostiene che «quando piove in tram sembra l’arcobaleno anche se si capisce che è il neon», un po’ quello che succede a chi guarda dal terzo anello di San Siro, inteso come stadio e poi come tetto del tram. E sì, ci piove, ma piano, e non sempre.

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