Sono passati dieci anni dalla morte di Lou Reed, cantautore e poeta statunitense. Era malato dal 2000 di tumore al fegato, ma soffriva dagli anni Settanta di Epatite C, contratta iniettandosi eroina con una siringa infetta.

Se lo nominaste adesso a qualcuno, vi direbbe che lo conosce, è il cantante di Walk on the wild side o ancora di Perfect day, e si lo è. Eppure è stato molto di più e ancora prima di pubblicare il suo disco solista più famoso, sebbene non il suo preferito, Transformer.

Lou Reed, al secolo Lewis Allan Reed (in realtà Rabinowitz, ma il padre aveva americanizzato il cognome) è nato a New York il due marzo del 1949. Ed è vissuto non nei quartieri che poi canterà, ma nella cultura suburbana di Long Island, da una famiglia ebrea benestante. È dal padre che ha ereditato la sua passione per la musica, però quello coi genitori non è stato un rapporto semplice.

Giovinezza

Reed fin da ragazzo ha avuto un carattere ansioso e nevrotico che l’ha portato ad avere un crollo nervoso durante il primo anno di college all’Nyu. Il rimedio dei genitori, su consiglio dello psichiatra, fu l’elettroshock come ha scritto la sorella e come lui stesso racconterà nella canzone Kill your sons (1974), anche se secondo lui ha subito l’elettroshock per le tendenze omosessuali che mostrava.

Una volta migliorato, Lou Reed è tornato all’università. Dopo essersi laureato in giornalismo, regia cinematografica e scrittura creativa alla Syracuse University, ha iniziato a lavorare come autore di canzoni per la Pickwick Records. È lì che ha incontrato John Cale, futuro tastierista dei Velvet Underground.

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Nel 1964 i due, insieme a Sterling Morrison alla chitarra e Angus MacLise alla batteria, hanno fondato i Velvet Underground

MacLise lascerà però subito il posto a Maureen Tucker. Con questa formazione nel 1967 i Velvet Underground pubblicheranno il loro disco di debutto nonché il più famoso: The Velvet Underground & Nico, rivoluzionando la musica alternativa e ispirando molti gruppi a venire del punk, della new wave e post-rock, tanto da far dire una quindicina d’anni più tardi al produttore e musicista Brian Eno che «tutti quelli hanno comprato una delle prime copie dell’album hanno poi messo in piedi una band».

Anche se in realtà all’inizio fu un fiasco commerciale, dovuto a un mix di pessima gestione da parte dell’etichetta e dissidi legali per il retro della copertina.

L’incontro

I Velvet Underground attireranno molto presto l’attenzione del più famoso artista della scena underground dell’epoca, Andy Warhol. Il loro incontro è nato dall’auto-sabotaggio della band. Reed e Cale avevano già scritto alcune canzoni che poi sarebbero entrate a far parte del primo disco, tra cui The Black Angel’s Death Song, che parla di un imprecisato angelo nero, personificazione della morte stessa, che filosofeggia su la vita e la morte. 

Una sera, nel 1965 i Velvet dovevano suonare al Café Bizarre nel Greenwich Village. Il proprietario del locale gli aveva proibito di suonare quella canzone e la band per ripicca la mise in scaletta per prima. Il proprietario si infurio e staccò la corrente prima della fine del brano. Fu il concerto più breve della storia, ma trovarono Warhol.

The Factory

Warhol ha iniziato a far suonare la band all’interno di esposizioni multimediali, come l’Exploding Plastic Inevitable che mescolava cinema e musica underground, danza e luci stroboscopiche.

L’artista lasciava alla band moltissima libertà musicale, occupandosi invece della sua immagine e dell’iconica copertina dell’album, insistette solo su un punto: il gruppo doveva includere la modella tedesca Nico, pseudonimo di Christa Päffgen. Nico canterà solo tre delle canzoni dell’album di debutto Femme Fatale, All Tomorrow’s parties e I’ll Be Your Mirror ma basteranno per rimanere nella storia. 

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La presenza tutto sommato non troppo ingombrante di Warhol è stata una manna dal cielo per i Velvet. Infatti, avendo a che fare con il padre della pop-art, i fonici non si permettevano di toccare nulla e «lasciavano tutto in purezza» ha riferito lo stesso Reed in un episodio del 1968 del South Bank Show. In questo clima venne creato il primo disco.

The Velvet Underground & Nico

L’esperienza di Reed alla Pickwick Records l’aveva messo in contatto con la musica pop del tempo. Questo è evidente in Sunday Morning, in cui la linea di basso che apre il brano è una citazione di Monday, Monday dei Mamas and the Papas, brano in vetta alle classifiche nell’aprile del 1966. Sunday Morning è una delle canzoni più famose del disco, che dietro la melodia eterea e luminosa, nasconde un testo intriso di paranoia.

Il soggetto della canzone fu suggerito da Warhol che propose a Reed: «Perché non ne fai semplicemente una canzone sulla paranoia?». E infatti il testo dice: «Attento, il mondo è dietro di te, c'è sempre qualcuno che ti guarda». 

Un’altra citazione notevole è invece in There She Goes Again , dove il riff è preso di peso da Marvin Gaye. «Il riff è una cosa soul, un misto tra Hitch Hike di Marvin Gaye e gli Impressions» – ha ammesso John Cale ad Uncut, nel 2012 – «era la canzone più semplice di tutte, Lou l’aveva scritta mentre lavorava alla Pickwick».

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L’album però non manca certo di quei brani di musica colta, distanti anni luce dalle sonorità hippie della West Coast, che ne hanno hanno fatto il tratto distintivo della band. Canzoni colme di nichilismo disperato, alienazione, solitudine, degrado urbano, droga, prostituzione e violenza. Come I’m Waiting For The Man che sostanzialmente parla di comprare droga ad Harlem.

È un rock’n’roll scarno e crudo quello di questa canzone, tutto in battere. Il suo ritmo monocorde accompagna un cantato tanto distaccato da essere straniante e sarà un esempio imprescindibile per il sound di band come gli Stooges e gli Mc5. 

O ancora Venus in Furs ispirata all’omonimo romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, lo scrittore da cui deriva il termine masochismo. La storia di sesso, morbosa e malata, si amalgama con il suono primitivo della batteria di Maureen Tucker e con il battito mortifero della grancassa, rendendo il brano quasi inquietante.

Per non parlare di Heroin il cui ritmo alterna lentezze e accelerazioni evocando la salita del liquido nelle vene. La canzone inizia con un arpeggio di chitarra serrato che si fa sempre più serrato man mano che la voce di Reed ci racconta di aghi e pulsioni autodistruttive «I have made the big decision/ I’m gonna try to nullify my life [...] When I’m closing in on death».

La canzone in realtà non glorificava l’uso dell’eroina come  anestetico per i turbamenti della vita, anche se ascoltatori e critici l’hanno pensato. Lou Reed ha detto: «La considero una sorta di esorcismo per gli elementi autodistruttivi in me, e speravo che gli altri la prendessero in questa maniera. Ma quando vidi come il pubblico reagiva, fu disturbante. Iniziarono a venire persone che mi dicevano: “Ho iniziato a bucarmi a causa di Heroin”».

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I nuovi Velvet

Il secondo disco White Light/ White Heat è tutto un’altra cosa. Lou Reed era stanco delle performance d’arte di Warhol e lo licenzia (così come Nico). Alla casa discografica Verve, i Velvet propongono un disco registrato in presa diretta e strutturato come un live.

L’etichetta, che non ci aveva guadagnato l’anno prima quando con loro c’era Warhol e ritiene poco probabile riuscirvi ora, li affida al produttore Tom Wilson, che però presterà pochissima attenzione al gruppo. Così loro daranno sfogo a tutta la rabbia e alle frustrazioni, dal fallimento commerciale del primo disco alle tensioni all’interno del gruppo con Reed che spingeva verso brani più melodici e Cale che voleva continuare a sperimentare. 

La qualità audio che ne esce fuori è molto inferiore a quella dell’esordio e il disco venderà ancora meno. Eppure l’album è forse l’unico incontro nella storia della musica tra il free jazz (di cui Reed era fan, specialmente del sassofonista Ornette Coleman) e il rock’ n’ roll.

Non solo, avrà un’influenza enorme sui gruppi a venire e su un certo tipo di musica. Mike Boehm del Los Angeles Times lo considerava una «pietra miliare grezza e brutale nello sviluppo di quello che sarebbe diventato il punk rock». I Buzzcocks hanno dichiarato di essersi messi insieme grazie a un interesse condiviso per una delle tracce del disco «Sister Ray»: 17 minuti di pura improvvisazione

Gli ultimi due capolavori

Cale fu licenziato dopo il secondo disco. Viene rimpiazzato da Doug Yule che è più vicino a Reed, con le sue linee di basso melodiche. Le sonorità del terzo disco, The Velvet Underground, sono infatti totalmente diverse dal furore elettrico di White Light/White Heat, così come dal minimalismo straniante del primo LP.  Questo è una sorta di folk-blues afflitto e disilluso. Lester Bangs ha scritto che in The Velvet Underground riescono a convivere «musica potentemente espressiva e testi intensamente sentimentali».

Lou Reed ha spiegato l’ennesima trasformazione così: «Se diventi un’espressione artistica unidimensionale il pubblico finirà per evitarti. Dovevamo mostrare un altro lato di noi». Il disco del 1969 è una collezione di piccoli gioielli, tra cui la canzone «più innocente che abbia mai scritto» ha detto lo stesso Reed: After Hours, affidata alla voce della batterista Maureen Tucker, perché più dolce e ingenua.

La ballata è un omaggio ai bar aperti tutta la notte, e racconta la solitudine e la depressione di una donna che si rifugia in un bar notturno per non dover vedere la luce del giorno, osserva gli altri divertirsi e ballare ma lei non ci riesce. È da questo brano che Manuel Agnelli ha preso il nome per la sua band Afterhours nel 1986.

Un’altra canzone però sta ancora più a cuore a Reed, quella che ha definito «la migliore canzone che abbia mai scritto»: Candy Says. È una canzone dolorosa, dedicata all’attrice transgender Candy Darling, che aveva conosciuto nella Factory e la cui immagine non l’ha mai abbandonato (Candy tornerà anche in Walk on the Wild Side).

L’attrice – che ha recitato anche con Sophia Loren in una commedia di Mario Monicelli, Lady Liberty – è stata una musa per i Velvet e una figura magnetica per Reed. È morta nel 1974 all’età di 29 anni per un linfoma. Nella sua lettera di addio, indirizzata ad Andy Warhol e a tutti i suoi fan, Candy ha scritto: «Purtroppo prima della mia morte non avevo più alcun desiderio di vivere, sono così annoiato da tutto. Potresti dire annoiato a morte. Sapevate che non potevo durare. L’ho sempre saputo. Vorrei potervi incontrare di nuovo». 

Secondo Cale è già da questo disco che emergono le tendenze da solista dell’ex compagno. E in effetti il missaggio «del ripostiglio» – come lo definirà Morrison – che Reed ha realizzato di nascosto dagli altri tre, mette in primo piano solo la voce del frontman «mentre gli altri sembrano essere stati rinchiusi in un ripostiglio».

Reed lascerà infine il gruppo nel 1970, pochi mesi prima l’uscita del quarto disco dei Velvet: Loaded. Questo ha testi e melodie facilmente accessibili, fondamentalmente creato per ottenere successi da far passare in radio, eppure è più di una raccolta di canzoni facili.

Robert Christgau scrisse su The Village Voice che la musica era genuinamente rock’ n’ roll ma anche «davvero intellettuale e ironica», mentre secondo Jeff Gonick, collaboratore di Past «la tripletta di Who Loves the Sun, Sweet Jane e Rock & Roll è tra le migliori aperture di tre canzoni su qualsiasi disco rock’ n’ roll».

Secondo la versione diffusa dallo stesso Reed, lui ha lasciato il gruppo perché le canzoni erano state accreditate a tutta la band e non solo a lui e perché l’album era stato rimontato e risequenziato senza il suo consenso. In particolare il tasto più dolente per Reed era la riedizione non autorizzata di Sweet Jane, che nelle prime versioni non prevedeva la sezione «Wine and roses», pensata con lo scopo di fare da bridge.

Tuttavia, Yule ha affermato che Reed aveva in realtà modificato le canzoni da solo e aveva eliminato quella parte per avere una hit. Reed comunque ha inserito la sezione in tutte le sue esibizioni live fino al 1973, quando ha smesso perché il bridge si adatta meno bene a una versione più hard rock del brano, come verrà eseguita in seguito all’album solista live Rock’ n’ Roll Animal.

Da solo, un inizio deludente

Dopo aver lasciato i Velvet ed essere andato a vivere per un periodo a Freeport dai genitori,  Reed si trasferisce nuovamente nel cuore di New York. Lì comincerà a frequentare il Collective Coscience, un salotto letterario per scrittori rock fondato dalla giornalista musicale Lisa Robinson e suo marito Richard, produttore per l’Rca. Sarà Richard Robinson a presentare Reed a Dennis Katz, un agente della stessa casa discografica americana: ne viene fuori un contratto per due album da registrare negli studi di Londra. 

Negli anni Settanta i Velvet erano ritenuti un punto di riferimento nell’ambiente musicale londinese, perciò il primo disco solista di Reed era atteso con trepidazione, forse anche troppa, ma il suo primo lavoro ha deluso pubblico e critica. I pezzi di Lou Reed sono scarti dalle incisioni con i Velvet Underground, però i musicisti che Robinson ha messo attorno a Reed si sono dimostrati piatti e poco efficaci.

Del disco si ricorda al massimo Berlin e non per particolari guizzi musicali o per il suo testo, ma per ciò che Jim e Caroline, la coppia protagonista della canzone ha rappresentato un paio d’anni più tardi. 

Alla corte del Duca

Dennis Katz era anche il produttore di David Bowie, che in quegli anni era già diventato il re del glam rock, assieme a Marc Bolan dei T-Rex. Il futuro Duca bianco era però anche un fan dei Velvet e soprattutto di Reed, a cui aveva dedicato persino un brano nel suo LP Hunky Dory: Queen Bitch, in cui imita volutamente la sua voce. Così si è offerto di produrre il suo prossimo disco: Transformer.

Sarà questo album del 1972  a essere considerato il capolavoro indiscusso del Reed solista. Tutto l’album è un omaggio in stile glam-rock ai personaggi che aveva conosciuto durante gli anni delle Factory. In merito alle canzoni del disco Lou Reed ha detto: «Ho sempre pensato che sarebbe stato divertente presentare alla gente personaggi che forse non avevano mai incontrato prima, o che non avevano mai voluto incontrare. Quel genere di persone che a volte vedi alle feste, ma che non osi avvicinare».

Reed ha cambiato anche il suo aspetto su consiglio di Bowie, ed ha assunto le sembianze de il Fantasma del rock: tuta nera, trucco giapponese, occhi bistrati, unghie laccate di nero. 

Transformer

Già il titolo è tutto un programma, Transformer è un esplicito riferimento al travestitismo glam. Ad aiutare Reed c’è Mick Ronson, il fidato chitarrista di Bowie. Ronson, oltre a suonare la sua chitarra col pedale wah-wah, ha composto gli arrangiamenti gli arrangiamenti degli archi, dei fiati e di tutte le grosse parti di piano.  È l’album in cui il rock metropolitano, sotterraneo, disturbante di Reed si mescola con il glam londinese. Ma è anche una rivoluzione perché dà voce a tutto un mondo sommerso e ai margini di New York.

Vicious è la canzone che apre il disco. Sono tre semplici accordi che si ripetono all’infinito, assieme a un arrangiamento scarno, ma faranno leggenda e lo stile semplice verrà copiato per decenni da band e artisti rock. La leggenda metropolitana vuole che il soggetto sia stato suggerito da Andy Warhol: un protagonista vizioso con una sublimazione sadomaso, che per colpire l’amante non usa il tipico frustino ma un fiore.

Subito dopo c’è Andy’s Chest dedicata a Warhol che nel 1968 ha rischiato di morire per mano di Valerie Solanas, una frequentatrice della Factory. Era già stata incisa dai Velvet, ma mai usata.

La terza è la famosissima Perfect Day, una delle migliori ballate malinconiche della storia. Si tratta di un lento sostenuto dal pianoforte di Mick Ronson e poi un crescendo culminante con gli archi. In molti l’hanno considerata una canzone d’amore, ma secondo alcuni la compagna a cui fa riferimento Reed è l’eroina che gli da «la forza di tirare avanti». Anche i versi «mi ha fatto dimenticare me stesso/ ho pensato di essere un altro/ una persona migliore» fanno pensare sia questa la giusta chiave di lettura. Reed però non ha mai confermato alcuna versione.

È soprattutto in Walk on the Wild Side che il cantante ricorda quella corte dei miracoli che era la Factory. In particolare, Holly Woodlawn, attrice transgender; Candy Darling, transessuale newyorkese; Joe Dallesandro, ovvero “Little Joe”, modello e gigolò prima di recitare in molti dei film prodotti da Warhol; Joe Campbell, citato nella canzone come “Sugar Plum Fairy”, militante del movimento di liberazione omosessuale e Jackie Curtis, attore, poeta e commediografo transgender. Il titolo viene da Warhol, che qualche anno prima avrebbe dovuto adattare per il teatro un libro di Nelson Algren, intitolato appunto Walk On The Wild Side e aveva chiesto a Reed di scrivere alcune canzoni. Il progetto sfumò, ma Reed ne riprese qui il tema.

Tra le ultime canzoni del disco c’è Satellite of love, un brano che avrebbe potuto benissimo essere inserito nei dischi glam di Bowie e infatti non mancano i suoi cori e la voce di Reed pare quasi ispirata. ll testo è follemente ironico e prende in giro la gelosia «I've been told that you've been bold/ with Harry, Mark and John Monday/ and Tuesday Wednesday through Thursday/ with Harry, Mark and John».

Ritorno al vero Reed

Walk on the Wild Side ha trasformato Lou Reed da un riferimento del mondo underground in una vera e propria rockstar, ma il contenuto troppo commerciale del disco non gli andava tanto a genio. Forse a questo si riferiva in Hangin ‘Round, quarta traccia dell’album, con «You’re still doing things that I gave up years ago», ossia la scena musicale glam londinese era solo una farsa del mondo che lui e i Velvet avevano conosciuto nella Factory di Warhol. Ma per Reed quel tempo era già passato. 

Così l’artista un anno dopo stigmatizza il successo del suo ultimo album: «Feci quello che la gente si aspettava da me, come ho già detto volevo diventare celebre per poter essere il più grande stronzo in circolazione e sono riuscito anche a ispirare dei grossissimi stronzi, perché la mia merda è molto meglio dei diamanti degli altri».

Reed impone così alla casa discografica un album molto più intimista e buio Berlin, questo sì un capolavoro assoluto. «Dovevo fare Berlin o sarei impazzito» dichiarerà successivamente. Per convincere la Rca però dovrà firmare un contratto in cui promette di pubblicare due dischi; uno commerciale come il precedente e uno live.

Berlin è un affresco di Lou Reed, in cui lui stesso scava dentro la sua anima. Si tratta di un concept album che nasce da una semplice domanda del suo produttore Bob Ezrin – che solo sei anni dopo produrrà un altro concept album, forse il più importante che la storia della musica ricordi The Wall –  «Che fine fa quella coppia della canzone Berlin del primo album?». per tutta risposta Lou gli sforna un intero album dove parla dell’amore di Jim e Caroline fatto di droga, violenza sadomasochista e depressione, che sfocerà in tragedia nella Berlino degli anni Settanta – città simbolo della decadenza – infatti non mancano i riferimenti a Bertolt Brecht e Kurt Weill. Gli arrangiamenti spaziano dal jazz alla classica, dal rock melodico alla musica pop.

Lo stupendo accompagnamento del pianoforte nella title track ci apre le porte in un’atmosfera di greve di acuta malinconia.

Il secondo brano Lady Day è un omaggio alla cantante jazz Billie Holiday, morta a soli 44 anni per abuso di droghe e alcol. La cantante viene posta in relazione con la protagonista Caroline e così ne fa già presagire la tragica fine. 

How Do You Think it Feels è la canzone più autobiografica di tutte. Jim rivolge una serie di domande a Caroline, ma sa che non riceverà risposta, anzi non sarà proprio capito. La continuazione naturale è in Oh Jim in cui il protagonista dipinge tutti i suoi lati negativi.

Caroline Says II è la gemma di questo album e descrive in dettaglio la relazione violenta con agghiacciante trasparenza. Fa anche già presagire il suicidio di Caroline, che vedremo mettere in scena poi nel brano The Bed. Nella vita reale anche il rapporto tra Lou Reed e la sua moglie dell’epoca stava andando in pezzi, e proprio durante la lavorazione del disco la moglie tentò il suicidio tagliandosi le vene, ma sopravvisse.

Con l’ultima canzone Sad Song Jim riguarda con malinconia alla loro storia, ora che tutto è perduto. Però si autoassolve (forse anche Reed?) dal suicidio della moglie.

L’anima al diavolo

Il disco commerciale che aveva promesso all’Rca sarà Sally Can’t Dance, da lui stesso definito una «schifezza». L’album live invece è Rock’ n’ Roll Animal e sarà un successo. Berlin al contrario era stato un flop, non capito dalla critica e dal pubblico, questo ha deluso moltissimo Reed, che ha deciso di chiudere il suo lato intimista e presentarsi allora solo come un animale del rock. Così fresco di capelli ossigenati ha riproposto nel 1974 alcune delle canzoni registrate con i Velvet Underground e Lady Day di Berlin.

Il disco fu registrato in occasione del concerto di Lou Reed a New York il 21 dicembre 1973, ma dalla scaletta presentata quella sera sono stati estromessi ben otto brani. È una versione rock molto più dura quella che ci propone Reed, tra cui spiccano Sweet Jane anticipata dalla mirabolante chitarra di Steve Hunter e Rock & Roll dilatata a dismisura da un dialogo a due tra  il chitarrista Dick Wagner e il bassista indiano Prakash John.

La musica elettronica

Già negli anni Sessanta John Cale aveva introdotto Lou Reed alla musica elettronica, ma sarà nel 1975 che Reed con Metal Machine Music metterà in pratica gli insegnamenti di Cale. Nelle note di copertina Reed ha fatto scrivere: «Se questo disco non vi piacerà, non vi biasimo. Non è per voi. La mia settimana scandisce il vostro anno». E questo già fa presagire di che tipo di lavoro si tratta.

Il doppio album non presenta melodie e ritmi riconoscibili, è un insieme di feedback modulato ed effetti di chitarra di musica noise, mixati a velocità variabili. L’ispirazione gli viene dalla musica drone (musica minimalista) della metà degli anni Sessanta del Theatre of Eternal Music di La Monte Young,  i cui membri includevano oltre a  John Cale, anche Angus MacLise il primo batterista dei Velvet.

Questo è il modo con cui ha rivendicato la sua autonomia creativa sia verso la casa discografica, ma soprattutto verso il suo pubblico. Reed dirà poi: «Volevo fare piazza pulita e liberarmi di tutti quegli stronzi fottuti che vengono ai miei concerti e si mettono a urlare Vicious o Walk on the Wild Side». Come era prevedibile l’album non è stato subito compreso, la critica l’ha stroncato e molti di coloro che l’avevano comprato lo hanno poi restituito. Eppure è stato qualche anno dopo d’ispirazione per i gruppi a venire, uno tra tutti i Sonic Youth. 

Coney Island Baby

L’anno seguente Reed ha deciso di farsi perdonare dal pubblico, così ha registrato Coney Island baby, un album dedicato a se stesso e a Rachel, il travestito con cui convive da quando si è separato dalla moglie. È un rock con un po’ di glam e un pizzico di jazz quello di questo disco, in cui racconta la storia d’amore con Rachel a partire da Crazy Feeling, che parla del suo colpo di fulmine.

Nella title track rende il suo regalo esplicito «I’d like to send this one out to Lou and Rachel». La canzone è ispirata da un vecchio brano anni Cinquanta Glory of Love ed è uno tra i pezzi più autobiografici di Reed, infatti dopo la dedica a Rachel c’è anche quella per i suoi amici «and all the kids at P.S 192» della scuola materna ed elementare di Brooklynm che frequentò prima che la famiglia si trasferisse a Long Island.  

Di nuovo duro

Tra Coney Island Baby e Street Hassle del 1978, c’è Rock’n’ Roll Heart che doveva confermare il successo del primo, ma si rivela solo un insieme di pezzi divertenti e di qualità inferiore. Con Street Hassle Reed ha messo in mostra di nuovo il suo lato duro e cinico, Letteralmente il titolo vuol dire “incidente stradale”, ma Reed gioca con l’assonanza di “feccia di strada”. 

È un album di denuncia sociale contro il perbenismo americano e infatti sarà censurato alla radio. Pubblicato dall’ Arista Records, si tratta del primo album con registrazione binaurale, cioè i microfoni sono disposti nella sala in modo da creare l’effetto per l’ascoltatore di essere nella stanza con Reed, e si compone di registrazioni live – in cui il pubblico è escluso dal mix – e sovraincisioni in studio.

C’è un’interessante storia che riguarda la title track. Il presidente di Arista, Clive Davis, aveva convinto Reed a concentraesi su quella, quindi Reed l’ha espansa facendola diventare una suite di 11 minuti che verso la fine recita «Tramps like us, we are born to pay». Il suo ingegnere del suono , Rod O'Brien, però lo avvertì che un verso molto simile esisteva già, nella title track di Born to Run pubblicato tre anni prima da Bruce Springsteen. 

Si dà il caso però che Springsteen stesse registrando il suo quarto album Darkness on the Edge of Town proprio nello stesso studio di Reed, al piano inferiore. I due così scesero di sotto e chiesero a Springsteen di poter utilizzare la frase, che non solo glielo permise, ma recitò una piccola parte in Street Hassle tra cui il verso “incriminato”. Springsteen però non venne accreditato per la sua performance nelle note di copertina di Street Hassle a causa di una policy stabilita dalla sua etichetta discografica, la Columbia Records.

Take no prisoners

Nello stesso anno Reed ha pubblicato anche un altro disco, stavolta solo live: Take no prisoners. Lui stesso ebbe a dire che si trattava di un «album di blues urbano, la cosa più vicina a Lou Reed che avrete mai» e infatti nel live stravolge completamente le sue canzoni più famose e se la prende con tutto e tutti.

Il suono è particolare ed è frutto di un’innovativa tecnica di incisione che utilizzerà un anno dopo in The Bells, un disco più sperimentale.

Gli ultimi lavori

Negli anni Ottanta Lou Reed ha cominciato a uscire dalla spirale di droga e alcol in cui era entrato anni prima e ha anche iniziato ad impegnarsi nel sociale, ma nel frattempo la sua carriera traballava.

Di quegli anni si ricordano più che altro The Blue Mask dedicato al suo insegnate di poesia alla Syracuse University che lo aveva profondamente segnato, morto alla fine degli anni Sessanta, non prima di essersi opposto all’entrata nella scena musica del suo allievo (che gli aveva comunque dedicato European Son che chiude The Velvet Underground & Nico). 

E anche la trilogia  New York, Songs For Drella e Magic and Loss che riflettono sulla sua maturità creativa e personale. Il primo del 1989 si comcentra sulla decadenza sociale morale ed economica di New York. Nelle note di copertina Reed ha fatto scrivere «un disco da leggere, un libro da ascoltare».

Il secondo è stato pubblicato nel 1990, ma affonda le sue radici nel 1987, quando dopo la morte improvvisa per un intervento chirurgico di Andy Warhol, Reed e Cale si sono ritrovati e hanno scritto Songs for Drella per il loro vecchio amico.

Infine Magic and Loss del 1992 che è dedicato a due cari amici morti all’inizio degli anni Novanta di cancro, il musicista Jerome "Doc" Pomus e "Rotten" Rita. Nelle note di copertina si legge: «Nell’arco di due aprili ho perduto due amici, nell’arco di due aprili la magia e la perdita» come se il lutto potesse essere mitigato dal mistero della magia.

È del 1993 invece la reunion dei Velvet Underground, la formazione originale, con Cale al posto di Yule. I quattro hanno pubblicato un album dal vivo, ma in cantiere c’era anche un altro disco, mai registrato per il riaffiorare delle vecchie tensioni.

La parentesi con i Velvet l’ha nuovamente ispirato e ha pubblicato nel 1996 Set the Twilight Reeling, un tributo al chitarrista dei Velvet Underground Sterling Morrison, morto l’anno precedente e dedicato anche alla cantante Laurie Anderson, l’ultima compagna di Reed che sposerà qualche anni prima di morire.

Nel 1997 Lou Reed ha anche appianato i dissapori nati con Bowie dopo Transformers al Madison square garden e nel 2002 ha pubblicato The Raven , si tratta di un lavoro teatrale rivisto e rielaborato da Reed appositamente per essere inciso. Per arrivare pi al 2011, due anni prima di morire, all’inaspettata collaborazione con i Metallica per il disco Lulu, un’ opera rock, ispirata a due atti teatrali scritti dal drammaturgo tedesco Frank Wedekind.

La morte 

A causa dell’insufficienza epatica dovuta all’epatite C, nel maggio 2013 Reed si era sottoposto a un trapianto di fegato, ma in ottobre l’artista si è dovuto nuovamente ricoverare per complicazioni post trapianto con annesso aggravamento dell’epatite C e del tumore. La notizia del decesso il 27 ottobre 2013 fu data per prima dal sito web della rivista Rolling Stone e si diffuse in seguito in tutto il mondo.

La cantautrice Patti Smith, sua amica da quando lo aveva conosciuto al Max’s Kansas City nel 1970 dove stavano suonando i Velvet, ha scritto sul New Yorker una settimana dopo la morte : «Ho cercato il significato della data, 27 ottobre, e ho scoperto che era il compleanno sia di Dylan Thomas che di Sylvia Plath. Lou aveva scelto il giorno perfetto per salpare: il giorno dei poeti, la domenica mattina, con il mondo alle spalle».

È stata lei nel 2015 a introdurre Lou Reed alla Rock & Roll Hall of Fame Induction Ceremony

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