Un recente bilancio degli effetti della riforma Gelmini sull’istruzione secondaria ha evidenziato una contrazione del liceo classico e una diminuzione delle sezioni tradizionali (già questo, un nome che puzza di stantio) dello scientifico. La colpa sarebbe quindi del latino, il maggiordomo assassino dei romanzi gialli, da cui gli studenti saggiamente fuggirebbero prima di diventane le ennesime vittime. A questo punto, in mancanza del campionato, è stato rispolverato uno dei più classici tormentoni balneari: il latino è utile, non è utile, oppure è utile se se ne sta in disparte?

Ne ha già parlato Giulia Addazi su queste pagine. E anche noi se dobbiamo esplorare come funziona a Utilopoli - ovvero il mondo della scuola contemporanea, dove solo ciò che è utile ha pieni diritti di cittadinanza - siamo talmente assuefatti a questa domanda che quasi mai ci chiediamo se la questione dell’utilità abbia realmente senso. Mi spiego: se il criterio universale è l’utilità, allora la maggior parte di ciò che impariamo ha poco senso. Perché si insegna ancora a contare, se tanto ci sono le calcolatrici? Perché studiare le lingue straniere, se ci sono i traduttori automatici? A cosa serve andare a scuola guida, se le macchine tra poco si guideranno da sole? Ma spingiamoci ancora più in là: a cosa serve, oggi, saper leggere e scrivere, se Alexa e l’intelligenza artificiale possono farlo al nostro posto?

Il problema, però, è che la spasmodica ricerca di cose utili, aggettivo che si traduce o nella capacità di generare profitto o di liberare tempo, non ha conciso né con un aumento generale del benessere economico, né - più interessante ancora - in una nostra reale liberazione. Al contrario, siamo sempre più dipendenti. Abbiamo bisogno di chi ci porti il cibo con la bicicletta, speriamo che venga presto perfezionata la macchina che ci accompagni qua e là in modo automatico, siamo asserviti ad una serie di app che ci fanno i conti, ci accendono la luce, ci controllano il latte in frigo, scrivono un testo al posto nostro, ci indicano la strada, ci consigliano una pizzeria, ci avvertono quando è ora di andare a dormire, traducono per noi un brano in lingua straniera, creano musica e ci forniscono due dritte, spesso generiche e approssimate, su tutto, dato che non abbiamo mai tempo, ma soprattutto voglia, di approfondire. Insomma: la nostra vita è una delega costante.

Il problema, però, è che la delega comporta sia l’accontentarsi dell’approssimazione, sia la rinuncia a pezzi di indipendenza. Pochi giorni fa, Cristiano Giuntoli ci ha messo a parte di un’importante scoperta: qualcuno - probabilmente uno i cui nonni erano spesso morti nelle ore di latino - gli ha fatto notare che Juventus inizia con You, “che significa tu” e si chiude con “noi” us. “Questo dice molto del gruppo squadra!” commentava Giuntoli compiaciuto. Direbbe molto anche di tanto altro, vorremmo aggiungere noi vecchi cuori granata e latinisti, un sottogruppo particolarmente versato in battaglie perse. Al di là dell’ironia, questa affermazione mostra non solo come il nostro orizzonte linguistico sia completamente appiattito sull’inglese, ma dice qualcosa anche sulla domanda a che cosa serve il latino.

Sapere il latino, al pari di molte altre conoscenze cosiddette inutili, è una (non l’unica) delle bussole che ci permette di non cascare nelle trappole tese dal venditore della Fontana di Trevi di turno. Ci permette di sedere al tavolo della vita con armi non spuntate dall’approssimazione e muoverci in autonomia nello spazio del passato e del presente. Serve a non andare all’assalto di Capitol Hill vestiti per metà da Spartani alle Termopili e per l’altra metà da vichinghi, nella convinzione di stare in qualche modo percorrendo le loro orme. Serve a contestualizzare, a problematizzare, a guardare con i nostri occhi e a non doverci fidare della versione che ce ne danno gli altri (Giuntoli, attento! non esistono zebre a pois). L’antico è un antidoto alla superbia della contemporaneità, che non di rado pensa di vivere tutto per la prima volta nella storia. Sì, forse oggi stiamo mettendo in atto – grazie alla tecnologia – molti sogni e molti incubi dell’uomo di tutti i tempi, ma è improbabile che quel pensiero, quel sentimento e quella paura siano stati elaborati per primi da noi.

Certo, l’antico va studiato per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse. In questo ambito, sono certamente legittime le richieste di chi vorrebbe questo studio allargato anzitutto in senso geografico, così come arricchito da prassi didattiche e di ricerca nuove. Anche l’istanza che ci proviene dalla società, ovvero: spiegateci a cosa serve davvero il latino nelle scuole senza nascondervi dietro a luoghi comuni (“chi va bene in latino va bene anche in matematica”) e craniotomie (“il latino apre la mente”), non può essere liquidata, ma necessita di uno sforzo di risposta serio.

Bisogna però fare attenzione – da entrambi i lati – a non cadere nel pregiudizio. In altre parole, l’invito a guardare l’antico con occhio scevro da pregiudizi vale anzitutto nei confronti dei suoi professionisti, i professori di latino (e greco) di tutti i livelli, di cui spesso si parla secondo una visione stereotipata e largamente ingiusta. Esiste una sorta di professore di latino e greco collettivo, spesso deriso anche dalle serie tv, in cui è sempre il più antipatico, istericamente tradizionalista, provinciale, frustrato sia professionalmente sia nella vita privata. Quello che quando ci sono le elezioni politiche vorrebbe trovare sulla scheda il simbolo degli optimates, che barrerebbe con entusiasmo perché nel segreto della cabina elettorale Cicerone vi vede e Cesare no.

Ugualmente, esiste anche uno studente di latino collettivo: disinteressato, in conflitto perenne col docente sfigato di cui sopra, svogliato, apatico, sempre pronto a copiare la versione da Internet e che non vede l’ora di sbarazzarsi di questo ciarpame ammuffito. Anche qui, si tratta per la maggior parte di un luogo comune.

Proprio per queste ragioni, oggi il dibattito sul latino nella scuola ha bisogno anzitutto del contributo di chi lo insegna e non solo al liceo classico, ma anche negli indirizzi diversi, ovvero i luoghi in cui il latino soffre pochissimo per le remore dello studente annoiato di cui sopra e moltissimo per l’attacco e la svalutazione continua di famiglie e dirigenti scolastici, che tollerano la materia a patto che si comporti bene e non crei problemi. Non basta: spesso il colpo di grazia viene inferto dal fuoco amico, ovvero quel mondo accademico che talvolta guarda con doloroso distacco a queste frontiere - considerandole ormai aree in dismissione - e compatisce chi si trova lì, quasi fosse una disgrazia o peggio ancora una colpa.

Per queste ragioni io dico: colleghi, fatevi sentire. Il futuro dell’antico passa anche e soprattutto da voi, dalla presenza del latino in luoghi diversi dal liceo classico. Non siete un’ultima frontiera, ma determinate il fatto che il latino continui a rappresentare una possibilità di studio aperta a molti e non solo ad una nicchia. Che sarebbe poi il compito della scuola pubblica, offrire il più possibile a più studenti possibile, ma non apriamo questo tema. Attenzione quindi: la storia ci insegna che quando si spinge per eliminare una cosa che prima veniva offerta gratis a tutti, solitamente questa stessa cosa ricompare a pagamento, appannaggio di chi se lo può permettere. Citofonare USA, dove un anno in una scuola paragonabile a un nostro liceo dove si studia il latino può costare fino a 50.000 dollari.  

© Riproduzione riservata