Gli europei con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca si trovano di fronte ad una serie di sfide molto più serie. Il tycoon è forte e determinato, mentre la situazione strategica in ed attorno all’Europa è precaria. In tutto questo si inserisce l’incertezza politica che caratterizza la scena politica continentale (fra Parigi, Berlino e Bruxelles) e la diffusa preoccupazione per l’impatto di populismo e disinformazione
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sta già mettendo gli europei di fronte ad una serie di sfide molto più serie di quelle già intraviste in occasione del suo primo mandato presidenziale. Non solo infatti ‘Trump 47’ è più forte (soprattutto in questa fase) e più determinato di ‘Trump 45’, ma la situazione strategica in ed attorno all’Europa è molto più precaria e minacciosa oggi rispetto al 2016-2020 - senza contare l’incertezza politica che caratterizza la scena politica continentale (fra Parigi, Berlino e Bruxelles) e la diffusa preoccupazione per l’impatto sempre più destabilizzante di populismo e disinformazione.
Prevedere l’approccio che la nuova amministrazione americana adotterà nei confronti degli alleati europei – in generale, e sulla difesa in particolare – è una sfida in sé, e non solo perché Trump fa della sua imprevedibilità una potenziale risorsa politica, ma anche perché fra le sue esternazioni (e provocazioni) iniziali e le sue azioni finali c’è spesso uno scarto importante.
La prospettiva di un’uscita unilaterale degli Stati Uniti dalla NATO rimane una possibilità, per quanto remota. Il trattato di Washington la contempla all’articolo 13 - per qualsiasi membro e con un preavviso di un anno - e la Costituzione americana non è molto chiara sulla facoltà per il Presidente di prendere una tale decisione senza il concorso del Congresso: in passato Jimmy Carter, George W. Bush e lo stesso Trump avevano denunciato accordi internazionali in materia di sicurezza che erano stati ratificati a suo tempo dal Senato, ma nessuno con la portata strategica dell’Alleanza. Anche se non è mai stata presentata come un’opzione imminente, tuttavia, un’eventuale ‘Amexit’ dalla NATO rappresenta una carta negoziale per la nuova amministrazione.
È molto più probabile, comunque, che Trump 2.0 insista innanzitutto su una ‘condivisione del fardello’ (burden-sharing) più vantaggiosa per gli Stati Uniti e per il suo complesso ‘militare-industriale’ (come lo definì a suo tempo Eisenhower) e ‘tecno-industriale’ (come lo ha appena definito Biden). E che metta poi sul tavolo l’ipotesi, già ventilata da alcune think tanks vicine alla sua campagna presidenziale, di una sorta di burden-shifting: uno ‘spostamento’, in altre parole, tale da comportare un ritiro graduale di forze e capacità militari americane dal teatro europeo (attualmente circa 100 000 uomini e donne, con diverse basi e infrastrutture proprie) ma mantenendo una deterrenza ‘residuale’ (essenzialmente aereonavale ed eventualmente nucleare); e tale quindi da costringere gli europei a farsi sempre più carico della difesa convenzionale del loro continente, meglio se acquisendo sistemi d’arma e tecnologie made in USA piuttosto che sviluppandone di proprie.
A determinare il contesto specifico, i tempi e le modalità di questo scenario sarà, con tutta probabilità, il decorso della guerra russo-ucraina. Un eventuale disimpegno americano sarebbe infatti proponibile - questo lo riconosce anche Trump - solo dopo un credibile cessate il fuoco. Uno sbocco di questo tipo, evidentemente, accelererebbe una ridefinizione sostanziale della sicurezza sul continente, con una Russia sempre più aggressiva, un’America sempre meno presente e un’Europa ormai chiamata a scelte tanto urgenti quanto difficili su almeno tre fronti: il finanziamento della propria sicurezza, l’allocazione e la mobilitazione delle risorse necessarie, e l’organizzazione della propria difesa.
Difendersi costa
Sul fronte NATO, il nuovo Segretario Generale, l’ex premier olandese Mark Rutte, ha già segnalato la necessità di ritoccare verso l’alto il target di spesa militare nazionale degli alleati. Il target attuale – pari al 2 % del PIL, fissato nel 2014 per il 2024 – è stato finalmente raggiunto come media collettiva e da 23 alleati (su 32), ma costituisce ormai anche ufficialmente più un floor che un ceiling, nonostante Italia, Spagna, Portogallo e Belgio siano ancora ben lontani dal rispettarlo. Rutte non ha menzionato percentuali specifiche, almeno finora, ma numerosi addetti ai lavori parlano della necessità di alzare l’asticella ad almeno il 2,5 o addirittura il 3 entro pochi anni (probabilmente il 2030), e Trump ha di recente parlato addirittura di 5 % - una soglia che perfino Washington faticherebbe a raggiungere.
Il tema sarà sicuramente affrontato al summit dell’Alleanza che si terrà in giugno all’Aja. Ma Rutte ha già fatto capire che l’aumento non va visto soltanto o principalmente come una concessione a Trump ma anche come un messaggio a Putin, che già ora spende per la difesa circa l’8 % per cento del PIL e il 40% del bilancio dello stato russo.
Il dibattito interalleato sui target di spesa militare e sulla loro validità è vecchio di decenni, e ha tradizionalmente contrapposto i fautori, appunto, dei cosiddetti input criteria (i bilanci nazionali dei ministeri della difesa) a quelli degli output criteria (le capacità effettive messe a disposizione dell’Alleanza). Non è un segreto che la Grecia spenda da sempre molto al di sopra dei target NATO ma lo faccia soprattutto per mantenere unità navali, velivoli e soldati a protezione delle sue numerose isole e dei loro spazi aerei, che considera minacciati dalla vicina (ed alleata) Turchia. Al contrario, paesi come Danimarca e Olanda, che invece fino al 2024 non hanno rispettato il target, hanno un record del tutto rispettabile di partecipazione ad operazioni ed attività dell’Alleanza. La stessa Italia si è impegnata a fondo prima in Afghanistan e poi, dal 2016, nella protezione dei paesi baltici e del fianco orientale - oltre che nel Mediterraneo ‘allargato’.
Dal punto di vista statistico, poi, non tutti i membri della NATO seguono gli stessi metodi contabili nel calcolare le loro spese per la difesa – ad esempio riguardo all’inclusione o meno delle pensioni del personale di carriera, al costo delle operazioni militari all’estero o ad altre voci rilevanti per la sicurezza nazionale (per Francia e Gran Bretagna, l’arsenale nucleare) - rendendo in questo modo meno rigorosa la misurazione e la comparazione dei dati aggregati. Lo stesso bilancio del Pentagono, in fondo, non copre soltanto - o principalmente - la presenza militare americana in Europa, alla quale contribuiscono pure in varie forme molti dei paesi che la ospitano.
Infine, è del tutto evidente che un aumento di spesa dello 0,5 % del PIL da parte della Germania non ha lo stesso impatto di un aumento analogo da parte di Lettonia o Bulgaria, così come è abbastanza comprensibile che gli alleati che hanno accresciuto più marcatamente i propri bilanci militari negli ultimi anni siano stati quelli più vicini al conflitto in corso, e perciò esposti più direttamente alla minaccia russa – a cominciare da Polonia e paesi baltici (e ora anche nordici).
E tuttavia, la fissazione ed il rispetto di target di spesa a livello nazionale rappresenta anche e soprattutto un impegno politico, un test di lealtà e solidarietà fra alleati, un po’ come furono a suo tempo i famosi ‘criteri di convergenza’ per l’Unione Monetaria Europea. E’ pure legittimo sostenere che un aumento significativo delle capacità militari (output) come quello ormai imposto dal deterioramento del contesto strategico in Europa non sia possibile senza anche un aumento quantitativo delle risorse di bilancio (input) investite da ciascun alleato. Fra l’altro, al vertice tenutosi a Vilnius nell’estate del 2023, la NATO ha adottato un piano di sviluppo delle proprie capacità per l’attuazione delle nuove strategie di difesa comune che, secondo diverse stime, comporterà un livello medio di spesa pari ad almeno il 3 % del PIL, vicino a quello del periodo della guerra fredda.
Si tratta di cifre che, a medio termine, le economie e le società europee potrebbero sostanzialmente permettersi, nonostante le difficoltà che hanno conosciuto dallo scoppio della pandemia. La spesa militare è in crescita spettacolare in tutto il mondo, incluse le regioni a ridosso dell’Europa, e con essa crescono anche i rischi di moltiplicazione delle minacce e delle guerre: un semplice principio di precauzione imporrebbe insomma di reagire per evitare di diventare, in tempi non troppo distanti, un elegante vaso di coccio fra vasi di ferro sempre più numerosi. Tanto più che, in realtà, l’industria europea della difesa rimane del tutto competitiva su scala globale - soprattutto sul versante delle esportazioni, con Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia fra le top ten a livello mondiale - nonostante la lunga contrazione del mercato interno dopo la fine della guerra fredda e la sua persistente frammentazione in mercati nazionali distinti.
Negli Stati Uniti, inoltre, la spesa militare a livello federale rappresenta da quasi un secolo una forma neanche tanto occulta di deficit spending di tipo keynesiano, creando reddito e posti di lavoro. Investire di più nel settore, insomma, può avere anche un prezioso impatto reflattivo per le asfittiche economie del continente – ammesso che si accordino su un modo accettabile di aggirare o mitigare i vincoli del Patto di Stabilità per l’euro - senza necessariamente intaccare altri tipi di spesa pubblica. In un contesto internazionale e regionale in cui l’Europa appare sempre più fragile, contestata e potenzialmente isolata, spendere di più per proteggere e difendere non solo il territorio ma anche i valori, gli interessi e lo stesso modo di vita del continente (la sicurezza come ‘bene pubblico’) non dovrebbe insomma rappresentare una missione impossibile – anche a prescindere da Donald Trump.
Le opzioni degli europei
Da quando la Russia ha invaso (per la seconda volta) l’Ucraina, nel 2022, i paesi UE hanno aumentato le loro spese militari aggregate di circa il 30%. Hanno anche accresciuto significativamente la dotazione iniziale tanto dell’European Defence Fund (creato nel 2021 e gestito dalla Commissione), che co-finanzia nuovi progetti congiunti, quanto della European Peace Facility, esterna invece al bilancio comunitario vero e proprio ed ora utilizzata anche per rimborsare parzialmente i paesi membri che hanno fornito equipaggiamento militare a Kyiv. Sul fronte della politica industriale vera e propria, inoltre, hanno creato due nuovi strumenti per il supporto, rispettivamente, della produzione di munizioni (ASAP) e dell’acquisizione congiunta di sistemi d’arma (EDIRPA).
Infine, la nuova Commissione presieduta da Ursula von der Leyen ha non solo indicato sicurezza e difesa fra le sue priorità per il prossimo quinquennio, ma anche nominato un Commissario responsabile per la difesa e lo spazio (il lituano Andrius Kubilius), supportato da una Direzione Generale ad hoc (DG DEFIS, creata già nel 2020).
Tutti questi strumenti finanziari ed amministrativi dovrebbero essere mantenuti e rinforzati nei prossimi anni – i fondi allocati finora, per un totale di circa due miliardi di euro l’anno, sono ancora poco più che simbolici – ma la vera sfida è da tempo rappresentata (a livello nazionale e collettivo) non solo da quanto ma anche da come si spende. In molti casi, infatti, l’impatto strategico-militare complessivo dei bilanci della difesa europei (output) risulta ben inferiore alla somma delle sue parti (input).
Anche dal punto di vista delle capacità, gli europei dispongono sì di alcune ‘nicchie’ di eccellenza – che sono state comunque concepite, sviluppate e dispiegate essenzialmente nel quadro NATO e sotto leadership americana – ma presentano tuttora lacune importanti riguardo alla difesa anti-aerea e anti-missile e, soprattutto, ai cosiddetti strategic enablers (intelligence e ICT).
Si dovrebbe insomma non solo spendere di più ma anche spendere meglio – in termini di priorità e di allocazione delle risorse (fra personale, operazioni, equipaggiamento, ricerca e sviluppo) – e, soprattutto, spendere assieme, anche per generare economie di scala e sinergie strategiche, riducendo gli sprechi e le duplicazioni e facilitando l’interoperabilità.
E proprio l’Unione Europea può facilitare e incentivare il pooling & sharing fra i partner UE (23 dei quali sono ora anche nell’Alleanza), puntando sul valore aggiunto rappresentato dal mercato unico e dai bilanci comuni per ottenere “more bang for our euros” – e farlo, appunto, con modalità compatibili e complementari rispetto ai piani sottoscritti in sede NATO.
Ed é appunto in questa direzione che sembrano muoversi sia le iniziative ufficiali prese fin dal 2021 sia alcune indicazioni contenute nei Rapporti preparati di recente per la UE da Enrico Letta, Mario Draghi e Sauli Niinisto, che offrono un menu di opzioni che va dal consolidamento della base industriale della difesa al finanziamento congiunto della produzione e acquisizione di armamenti, fino al rafforzamento delle capacità condivise di intelligence, prevenzione e reazione.
Entro i primi mesi del 2025 la Commissione dovrebbe pubblicare una sorta di ‘libro bianco’ sulla difesa (EDIP), con una serie di proposte sulla dotazione futura dei fondi comunitari (Kubilius ha parlato, ad esempio, di almeno 14 miliardi di euro all’anno, dal 2027, solo per ricerca e sviluppo), il possibile uso dei fondi di coesione (e perfino delle risorse non spese del PNRR) per sostenere la produzione industriale, ed altre opzioni più creative. Se l’eventualità di emettere debito comune (i cosiddetti eurobonds) per finanziare nuovi progetti pare ancora bloccata soprattutto da Berlino, ad esempio, l’ipotesi di ammorbidire i vincoli del Patto di Stabilità per l’euro sembra ormai incontrare meno resistenza, almeno da quanto è emerso al recentissimo vertice dei 27 dedicato appunto alla difesa.
La Banca Europea per gli Investimenti ha manifestato la propria disponibilità ad offrire crediti condizionati e mirati per il settore attraverso un’interpretazione più elastica delle sue regole sui prodotti dual-use, e si discute pure di soluzioni ‘ibride’ come la creazione di un fondo fuori bilancio (special purpose vehicle, SPV) di almeno 500 miliardi - coperto e garantito dai soli paesi interessati (in modo da eludere, fra l’altro, il vincolo dell’unanimità a 27) e aperto anche a Gran Bretagna e Norvegia - con la prospettiva di coinvolgere anche capitale di rischio.
Già nel corso di quest’anno, insomma, si potrebbe delineare un mix and match di iniziative e strumenti (vecchi e nuovi) con l’obiettivo di mobilitare risorse supplementari per creare la massa critica indispensabile per dare un impulso più tangibile e duraturo ad un settore divenuto non solo essenziale ma quasi esistenziale per la sicurezza europea. Resta da vedere quale potrà essere l’impatto di Trump su tutto questo, alla luce non solo della storica ambivalenza di Washington nei confronti dell’attivismo europeo in materia di difesa, ma anche della sollecitazione più o meno subliminale del vecchio e nuovo presidente agli alleati a buy American, che rischia di avere un effetto divisivo e dispersivo sulle varie iniziative e proposte appena illustrate, che puntano invece ad incoraggiare il buy European.
Anche in questo caso, probabilmente, si tratterà di trovare il mix più opportuno, dato che alcune delle capacità più richieste (come lo European Sky Shield promosso dalla Germania) non possono comunque fare a meno delle piattaforme di produzione americana – e perfino israeliana.
La protezione dell’Ucraina
Ad indirizzare tutte queste scelte sarà anche, evidentemente, il tipo e il livello delle minacce da affrontare. E in questo avranno un peso decisivo il decorso immediato e l’eventuale sbocco del conflitto russo-ucraino, soprattutto nell’ipotesi (ora non più tanto fantasiosa) di un cessate il fuoco fra le parti. Molto dipenderebbe dai termini dell’eventuale armistizio, ma la responsabilità principale di garantire la tenuta dell’accordo e tutelare la sicurezza dell’Ucraina (e indirettamente anche la propria, attraverso una sorta di forward defence) potrebbe davvero ricadere sugli europei.
Alcuni leader hanno già avviato consultazioni informali sulla possibilità di allestire una forza multinazionale da dispiegare a ridosso della possibile linea di demarcazione, col compito di monitorare l’armistizio, assistere gli ucraini e, implicitamente, scoraggiare possibili nuove aggressioni da parte di Mosca. Gli esperti militari ritengono che un’eventuale forza di questo tipo, per risultare efficace e credibile, dovrebbe mobilitare per un periodo di più anni diverse decine di migliaia di effettivi e consistenti infrastrutture di supporto, ed includere paesi-chiave come Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia e i nordici.
Resta ancora da vedere, inoltre, se questa possibile ‘coalizione di volontari’ potrebbe poi anche contare, oltre che su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, sul supporto della NATO in termini di pianificazione, intelligence e logistica e/o su una qualche garanzia di sicurezza da parte di Washington. Ma comporterebbe comunque un’assunzione collettiva di responsabilità da parte degli europei – un primo embrione del tanto evocato ‘pilastro europeo’ dell’Alleanza - e, presumibilmente, della stessa UE, ad esempio attraverso il ricorso all’articolo 44 del trattato, che permette di delegare ad alcuni partner missioni particolarmente impegnative (e che, finora, non è mai stato utilizzato).
Questa eventualità offrirebbe anche un’occasione importante per l’annunciatissimo ‘reset’ delle relazioni fra Bruxelles e la Londra post-Brexit - in un settore in cui i benefici reciproci e collettivi sono evidenti a tutti - oltre che per un rilancio e una ridefinizione delle relazioni della UE con la stessa NATO. L’Unione in quanto tale non dispone propriamente né di un mandato per la ‘difesa comune’ – lo ha soltanto per missioni di supporto della pace al di fuori del proprio territorio - nè di un quartier generale militare collaudato, di basi o forze proprie, mentre l’Alleanza rimane tuttora (per parafrasare di nuovo Keynes) l’indispensabile deterrente ‘di ultima istanza’ per la difesa del continente, vista anche la persistente difficoltà di trapiantare nell’UE la sua ‘cultura aziendale’, per così dire, e la sua esperienza operativa - entrambe di forte impronta anglo-americana.
Si tratta evidentemente di uno scenario ancora molto incerto, forse improbabile alla luce dell’attuale instabilità politica in diverse capitali, e sicuramente carico di rischi - ma anche di opportunità per un’Europa che volesse segnalare a Washington, a Mosca e, in fondo, anche a se stessa la propria vitalità e determinazione.
Questo testo è una versione riveduta e aggiornata di un saggio appena pubblicato sull’Annuario ISPI 2025, L’ora della verità (www.ispionline.it).
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