Francis Fukuyama, uno dei più importanti scienziati politici viventi, è senior fellow presso il Freeman Spogli Institute della Stanford University. I suoi scritti spaziano dalle origini della società agli inizi della preistoria all’ascesa della democrazia moderna e alle guerre identitarie del Ventunesimo secolo. Il suo nuovo libro, Liberalism and Its Discontents, una difesa dei valori delle società libere, uscirà negli Stati Uniti ad aprile 2022.

Nel testo, estratto dalla testata online Persuasion, Francis Fukuyama e Yascha Mounk discutono di cosa sia andato storto nel neoliberismo, degli eccessi dell’individualismo sia di destra sia di sinistra e di come rinvigorire il liberalismo.

La trascrizione del dialogo è stata condensata e leggermente modificata per chiarezza. Traduzione a cura di Monica Fava.

Yascha Mounk: Ho appena finito di leggere una bozza del suo prossimo libro. Anche se ci sono state molte difese del liberalismo negli ultimi anni, nessuna finora ha offerto la difesa ponderata, ma anche a tutto tondo, del liberalismo di cui abbiamo bisogno. Mi pare che il suo libro riesca in questo. Che cos’è questa tradizione chiamata liberalismo?

Francis Fukuyama: È una dottrina molto antica. E credo che ci siano diverse ragioni per cui esiste da così tanto tempo: una ragione pragmatica, politica; una morale; e poi ce n’è una economica molto potente.

La ragione pratica è quella di cui abbiamo perso le tracce, e cioè che il liberalismo è davvero una dottrina intesa a trattare con la diversità. Quando non ci si accorda realmente su certe questioni fondamentali, come si fa a vivere in pace gli uni con gli altri? Questo è legato alle origini del liberalismo: viene fuori dalle guerre di religione in Europa, dopo la Riforma protestante, quando protestanti e cattolici hanno passato 150 anni ad ammazzarsi reciprocamente.

I fondatori del liberalismo in sostanza hanno detto: «Dunque, se fondiamo una società su una dottrina religiosa di una qualche setta particolare non vivremo mai in pace, perché nessuno è mai d’accordo su quelle.

Allora mettiamo un attimo da parte la politica, concordiamo sul fatto che tutti abbiamo bisogno di vivere insieme e spingiamo la religione nella sfera privata. Puoi credere in ciò che vuoi, ma non devi imporlo a nessun altro».

Negli anni questo è stato davvero uno dei principali punti di forza del liberalismo: che c’è una vera diversità nelle società. Un paio di secoli dopo non c’era la religione, ma la nazione (i tedeschi contro i polacchi o i russi contro gli altri). Per la stessa ragione il liberalismo dopo il 1945 è diventato la dottrina dominante.

Perché se si basasse su una particolare etnia e una particolare cultura, non saremmo in grado di avere a che fare con le persone che non sono di quella etnia o cultura. E viviamo in un mondo piuttosto variegato. Oggi quando il termine “diversità” viene usato — penso che la sinistra lo abbia fatto proprio, e abbia solo una comprensione limitata della diversità — lo si usa relativamente alla razza, all’etnia, al genere, all’orientamento sessuale. Ma c’è anche la diversità politica. Il liberalismo serve proprio perché le persone non sono d’accordo su tante cose in politica.

Mounk: Come possiamo salvaguardare ed esprimere la necessità di fare scelte individuali, ma allo stesso tempo riconoscere che, per la maggior parte delle persone, i legami preesistenti con le famiglie d’origine, o con le proprie tradizioni religiose, o forse con le comunità etniche, sono davvero importanti?

Fukuyama: Penso che la risposta sia nel primo emendamento degli Stati Uniti, che tutela il diritto al libero esercizio della religione. Significa diverse cose. Innanzitutto lo stato non può imporre le concezioni religiose da seguire, ma nemmeno può un individuo imporre le proprie concezioni sugli altri, sebbene possa cercare di persuadere e convertire gli altri o discutere.

Ultimamente però, se hai un qualche potere sulle persone, non lo puoi usare per costringerle a credere nelle stesse cose in cui tu credi.

Mi pare che questa sia stata l’idea americana fin dall’inizio, in contrasto con la concezione anticlericale francese o quella kemalista che avevano di mira la religione stessa.

Negli Stati Uniti abbiamo sempre capito che una delle libertà fondamentali di cui godiamo è la libertà di scegliere il nostro credo religioso. Ma questo è sempre limitato dall’ingiunzione che non lo possiamo imporre agli altri.

Mounk: Lei registra due modi distinti in cui il liberalismo si è smarrito negli ultimi decenni e questo può aiutare a spiegare perché le critiche al liberalismo sembrano essere in ascesa in così tanti paesi. Ci può dire qualcosa di più a riguardo?

Fukuyama: Ecco, questa è la mia opportunità per far arrabbiare sia quelli di destra che quelli di sinistra. A mio avviso esistono due versioni di liberalismo che sono state portate agli estremi. Gran parte dell’insoddisfazione riguardo al liberalismo contemporaneo dipende da questo.

A destra ha a che fare con l’evoluzione del liberalismo economico in quello che è stato definito “neoliberismo”. Qualcuno pensa che il neoliberismo sia appena un sinonimo di capitalismo. Ma ho una definizione molto più specifica: il neoliberismo è la versione della Chicago School of Economics – di persone come Milton Friedman o George Stigler – che erano fondamentalisti del mercato e sono diventati intellettualmente predominanti negli anni di Reagan e Thatcher. Una delle cose che teneva unito quel gruppo era una ostilità diffusa nei confronti dello stato.

Dal loro punto di vista i mercati in realtà erano allocatori efficienti di beni e risorse, e lo stato quasi sempre ostacolava la loro efficiente assegnazione. Di conseguenza, minimizzare l’azione statale è diventato il loro unico principio guida. E questo è accaduto in tutti i paesi ricchi dagli anni Ottanta in poi; non è stato solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

C’era una ragione per questo. Negli anni Settanta c’era troppa regolamentazione, c’era molta stagnazione a causa di imprese statali inefficienti in Gran Bretagna, in Francia e in molti altri paesi. Questa critica, quindi, aveva un fondamento, ma poi è diventata una religione. Lo stato era soltanto in opposizione, indipendentemente dal fatto che ci fosse o meno qualcosa di utile in ciò che stava facendo: si è spinta troppo oltre.

Gran parte delle reazioni populiste di oggi dipendono in realtà da questo mondo economico neoliberista, secondo cui se si può risparmiare qualche centesimo nella catena di approvvigionamento spostando l’intera produzione dal Nord America in un qualche paese asiatico, si accetta di farlo immediatamente.

 se si possono spremere i dipendenti, si insiste perché non si uniscano in un sindacato, per poi smangiucchiare i loro profitti e così via. La giustificazione di questo comportamento si basava sugli economisti che dicevano: «Beh, questo è ciò che rende efficiente il capitalismo».

Questa era una delle versioni del neoliberismo che ha fatto sì che molti giovani abbiano sviluppato una repulsione al capitalismo. Oggi associano il capitalismo a questa versione estremamente spietata e competitiva del neoliberismo, e questo ha avuto molte terribili conseguenze politiche per tutti noi.

Mounk: Quindi, se un modo in cui il liberalismo si è deformato negli ultimi decenni è economico, con l’ascesa del neoliberismo, l’altro è più culturale: si è ecceduto con un’enfasi sull’autonomia. L’individualismo, che è al centro della tradizione liberale, in un certo senso sta danneggiando sé stesso. Che cosa significa?

Fukuyama: È il sorgere della scelta stessa e il fatto di renderla un valore morale superiore a qualsiasi struttura morale preesistente, all’interno delle quali la scelta era stata limitata in precedenza. Questo porta a conseguenze come l’ostilità innata alla religione, perché ogni tipo di struttura religiosa diventa una gabbia; è un vincolo di ferro che impedisce l’attualizzazione del proprio io interiore. E c’è questa idea che ognuno di noi ha una specie di uomo o donna naturale rousseauiana che risiede nel profondo di noi, e che davvero è la società la prigione malvagia all’interno della quale questo essere è detenuto. Si tratta di un tropo molto familiare a qualsiasi adolescente. E porta a risultati apparentemente contraddittori.

Uno è una sorta di iperindividualismo, dove l’opposizione alla limitazione in sé – opporsi a qualunque tipo di conformismo – diventa il valore morale primario. Anche se ci sono versioni innocenti, significa anche che l’azione collettiva diventa molto meno possibile. In un certo modo ne vediamo una versione oggi negli Stati Uniti, nell’ostilità ai vaccini e ai mandati sanitari, come quello di indossare le mascherine, in cui c’è un bene collettivo che lo stato cerca di imporre. Tuttavia, c’è una visione secondo cui gli individui non dovrebbero accettare la minima riduzione della propria scelta individuale, anche nei casi in cui questo compromette la salute dei familiari o degli amici, e così via. Questa è una posizione assoluta di scelta sopra qualunque tipo di bene collettivo.

Ci sono molti esempi di questo anche a sinistra, dove esplorare le possibilità della realizzazione di sé ha portato a una specie di incoerenza morale. È una reazione. Ma l’altra reazione, a mio avviso, è più potente. L’altra risposta è dire «beh, in realtà non siamo questi individui oppressi, siamo membri di gruppi oppressi. Siamo marginalizzati per la nostra razza, etnia, genere od orientamento sessuale, e il “nostro vero io” è nel gruppo di appartenenza, che si basa su una caratteristica fissa con cui siamo semplicemente nati. Questo è davvero ciò che ci definisce».

La politica identitaria moderna scaturisce da qui, quando l’individualismo liberale viene percepito come una specie di favola raccontata dalle élite che ha convinto tutti che abbiamo una libertà individuale mentre invece viviamo in una gerarchia razzista e sessista. C’è poi un’ulteriore estensione di questa visione, che è anche un attacco alla scienza moderna naturale, che dice che queste élite ci stanno mettendo in queste categorie e ci hanno portato all’obbedienza perché controllano i nostri processi cognitivi che ci dicono che cosa è oggettivamente vero.

E nemmeno questo è vero. E quindi questo è ciò che ha portato alla versione di sinistra della politica dell’identità, che poi porta a una critica altrettanto pervasiva dello stesso liberalismo. È qui che penso che il liberalismo abbia finito per girare su sé stesso.

Mounk: Come sarebbero effettivamente le alternative al liberalismo? Questo movimento politico identitario sembra desiderare un sistema in cui aiutiamo esplicitamente le vittime storiche dell’oppressione progettando politiche [che discriminano esplicitamente tra i cittadini sulla base della loro religione o etnia], che è un modo per rifiutare la neutralità dell’universalismo che ha tradizionalmente caratterizzato le società liberali caratterizzate. Pensa che sia una descrizione accurata e c’è una ragione per cui dovremmo rifiutarla?

Fukuyama: Penso che sia più o meno quello che accadrà. È un’intensificazione delle tendenze che vediamo oggi, dove in ogni ammissione al college, appartenenza a un club o decisione di assunzione e promozione presa da un’azienda privata, la prima domanda che si fa è: «Qual è la razza, il genere e così via, del candidato?». Poi, una volta soddisfatti questi criteri, ci si può chiedere: «Bene, questa persona è qualificata?», o «Com’è il suo background o cv?».

E ci sono paesi che lo fanno, si pensi ai Balcani, all’Iraq, o persino all’India – che ha avuto programmi di azione affermativa estremamente estesi – o alla Malesia. Ci sono paesi che ancora, più o meno, contiamo come democrazie che hanno questi potentissimi programmi di azione affermativa in corso. Sì, siamo definiti in una certa misura da queste identità descrittive; ma siamo anche individui, e abbiamo anche scelta. Portiamo anche cose che abbiamo soltanto noi, e quindi significa una grande svalutazione di quelle caratteristiche.

Poi ci si imbatte in questi altri problemi politici, dove la politica diventa semplicemente una lotta per la divisione della torta tra questi gruppi fissi. In sostanza si finisce come il Libano in questo momento, dove tutto è assegnato in base alla setta religiosa di cui fai parte. Porta a una grande rigidità. Quando i dati demografici non corrispondono più a quella particolare divisione, la società è bloccata perché ci si è impegnati a dividere la torta in questo modo fisso.

Mounk: Uno dei punti davvero interessanti che fa è che l’attacco alla scienza e al metodo scientifico ha avuto origine nell’accademia e, politicamente, nella sinistra, dallo strutturalismo, dal poststrutturalismo e dal postmodernismo, fino all’enfasi sulla verità soggettiva di oggi. In realtà però questo è stato stranamente accolto in una parte influente della destra politica, e per molti versi ora è usato in modo più efficace dai populisti di destra. Come dobbiamo percepire questa migrazione?

Fukuyama: Beh, il genio del male che sta dietro a molte di queste cose è stato Michel Foucault, che ha scritto alcuni libri eccezionali. E come tanti altri fenomeni recenti, è partito dalla giusta osservazione che molto spesso la scienza è stata usata per mantenere una gerarchia esistente. Il suo esempio principale di questo è la sessualità: l’omosessualità è stata criminalizzata ed è stata considerata un disordine mentale da scienziati rispettabili. Quella parte di conseguenza era abbastanza legittima.

Poi però si allarga a questo argomento più ampio su quello che ha chiamato “biopotere”, in cui fondamentalmente vedeva ogni dibattito, e ogni uso del linguaggio, come un esercizio di potere, più che come un riflesso di un vero mondo empirico sul quale si dovevano raccogliere informazioni e arrivare a una specie di consenso su come funziona. Questo alla fine ha portato a un grande scetticismo sulla sinistra sul fatto che la scienza fosse effettivamente qualcosa di oggettivo o meno. Ed è passato a destra.

Ho scritto sul blog che dubitavo che qualcuno del mondo di Trump avesse effettivamente letto Foucault, ma che stavano arrivando a una conclusione simile perché politicamente era conveniente. Un professore mi ha scritto per dirmi che almeno tre persone nella Casa Bianca di Trump avevano scritto esplicitamente di Foucault. Non ne avevo idea.

Eppure effettivamente quegli argomenti erano lì a disposizione. Argomenti come quello che le élite vogliono farti credere che la scienza è oggettiva, ma in realtà non lo è. Si tratta esattamente dell’argomento che Trump e i suoi seguaci hanno voluto sostenere durante la pandemia di Covid per minare la credibilità di tutte le misure sanitarie pubbliche. Per cui sembrano esserci delle connessioni tra l’estrema sinistra e l’estrema destra, dal punto di vista intellettuale.

Mounk: La ragione per cui tante persone si ribellano al liberalismo è che si è distorto in questi due modi di cui abbiamo parlato; eppure le sue alternative non sono invitanti. Com’è un liberalismo che evita le trappole del neoliberismo o una versione esagerata dell’autonomia personale?

Fukuyama: Non bisogna essere apologetici sul liberalismo. Ecco perché ho scritto questo libro: per cercare di ricordare alle persone perché dovrebbero essere liberali. Dillo ora e dillo ad alta voce: «Sono un liberale». Ovviamente negli Stati Uniti ha una connotazione ben precisa. Quindi potremmo precisare: «Sono un liberale classico». La gente deve capire che essere un liberale classico ha questi argomenti molto potenti a favore.

L’altra parte, invece, è molto più difficile, che è l’argomento pragmatico del liberalismo: è un modo potente di governare la diversità, ma non ti fa alzare dal letto la mattina. Non dici: «Oh, sono grato che non siamo in una guerra civile con persone che non sono come me oggi!». Abbiamo bisogno di una comprensione più positiva del motivo per cui vogliamo vivere in una società liberale, e questo in parte ha a che fare con l’identità nazionale, anche se molti progressisti contemporanei hanno minimizzato lo stato-nazione, o addirittura attaccato la nazione come una specie di nave reazionaria per l’esclusione, l’intolleranza razziale o l’aggressione internazionale.

È davvero importante riconquistare i punti più alti e ritrovare un senso di identità nazionale di cui le persone non siano semplicemente imbarazzate, ma di cui siano effettivamente orgogliose, e definirlo. Per questo servono dei confini e una sorta di narrativa condivisa. E ci sono alcuni ostacoli reali, sia a sinistra che a destra, per crearlo.

Infine, vorrei solo dire che ci sono molte altre cose che rendono attraenti le società liberali: sono più innovative, sono più ricche, sono più ricche culturalmente. Basti pensare a tutte le cose che sono uscite dalle società classicamente liberali nel corso dei secoli, in sostanza il mondo moderno sotto molti aspetti. Dobbiamo costantemente ricordare a noi stessi che questo è davvero ciò che stiamo combattendo per preservare.

Pensiamo a una cosa come il jazz. Immagino che questa sia una cosa generazionale – i giovani non ascoltano più il jazz e il Great american songbook – ma non avremmo potuto farlo in una società omogenea e razzialmente esclusiva. Ciò deriva davvero dal fatto che, anche negli anni Trenta e Quaranta, quando c’era Jim Crow e così via, c’era ancora questa cultura multirazziale che poteva essere creata nell’America semi-liberale di quel tempo.

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