«Ci vorrebbe un miracolo ma non so a chi chiedere, sto per naufragare, vienimi a salvare, vienici a salvare», è la strofa che non mi ha più lasciata da quando l’ho sentita.

Sarà che di motivi la politica ce ne ha dati, in questi giorni, per appellarsi a un salvataggio e sperare in un miracolo. Sarà che il contrasto tra le parole e la musica da circo rimane in testa.

Si trova nella prima canzone dell’album di Diodato, Così speciale, che esce oggi. Io l’ho ascoltato con lui, Antonio, nel negozio di musica Sound Machine di Milano dove c’eravamo dati appuntamento.

Non lo incontravo dalla sua vittoria al Festival di Sanremo tre anni fa, nel 2020, quando il suo brano Fai rumore era appena diventato un inno e poi, pochi giorni dopo, siamo rimasti tutti chiusi a casa per due anni.

Qualche volta mi è capitato di incrociarlo al Gerri, un locale in via Perugino, ma stavolta abbiamo avuto più tempo per parlare di tutto. Di naufragi veri e figurati, del suo impegno da direttore artistico del Primo Maggio di Taranto, della vita a Milano, del desiderio di fuggire su un’isola e di App per trovare «una storia d’amore», come la chiama lui.

«Questa non l’ho ancora fatta sentire a mia madre, e dentro c’è anche lei», dice mentre ascoltiamo Occhiali da sole, il mio pezzo preferito. «Sono canzoni, ma soprattutto fotografie di momenti personali. È un album in cui ho riconosciuto dentro di me dei fiori fragili, che stanno crescendo nonostante tutto», spiega.

Nel testo di Ci vorrebbe un miracolo c’è un uomo che chiede aiuto e una banda che suona, come quella di un circo.

È la giostra della vita, questo è un disco dove la musica è centrale. Volevo lavorare di contrasto, come far dire a un bambino frasi che non ti aspetteresti mai. Racconto il mio caos interiore, alimentato da ciò che succede intorno.

In che fase della vita sei?

Mi sento una barca in mezzo al mare. E di questi tempi parlare di barche in mezzo al mare è dura. Siamo tutti una barca in mezzo al mare. E sai cosa? Non riuscire più a sentire un collegamento tra noi e i disperati nelle barche in mezzo al mare, è drammatico. È la nostra società che sta affondando. È la nostra visione del mondo che sta affondando assieme ai disperati.

Ripeti spesso che la musica ti ha salvato.

Sì, ha creato un ponte verso gli altri. Mettersi a nudo non è mai facile ma ho scoperto di appartenere anche a qualcun altro. Ciò che credevo fosse un aspetto drammatico della mia persona, un difetto, era anche di altri. Questo ha ridimensionato tutto e mi ha fatto sentire più compreso. In pace.

Amadeus ti ha invitato più volte a Sanremo ma a questo disco hai preferito lavorare in un altro modo. Come mai?

A Sanremo mi sento a casa, ma ho sentito la necessità di fare musica senza pensare a quell’aspetto, che per forza di cose ti influenza. Volevo che Così speciale fosse un lavoro intimo, sentivo che l’album doveva avere questo respiro qui.

Occhiali da sole sarebbe arrivata al podio.

“A ogni vostro come stai, risponderemo in fondo dai, va tutto bene” (intona, ndr). Hai ascoltato questa canzone prima di mia madre, parla anche di lei.

Che donna è tua madre?

La madre (scandisce con enfasi la parola, ndr). Da lei ho imparato tanto. Con lei c’è un legame stretto e sempre un confronto acceso e diretto. 

La canzone è sulle aspettative che gli altri hanno su di noi.

Ci sono dei momenti, soprattutto dopo serate in cui ti diverti e vivi sconnesso dalla vita quotidiana, in cui ti fai delle domande. E te le fanno anche gli altri. Ma poi dobbiamo seguire il nostro istinto.

Nel testo di Ormai non c’eri che tu, racconti una storia finita. È autobiografica?

Sì. Ogni incontro ci offre la possibilità di riconoscere, magari a distanza di tempo, degli aspetti di noi. Anche quando tendiamo ad annientarci, a diventare l’altro. A vivere in simbiosi e non riconoscersi più. Commettendo un errore.

In questo album sembra spesso che il protagonista – tu – abbia trovato la sua strada, e poi il finale non va mai come dovrebbe. Nella vita, ma anche nelle relazioni.

Può darsi. Io faccio sempre questa cosa, arrivo all’apice poi il punto dopo l’apice è il distacco. È sempre più difficile conquistarmi. Sono io che devo permettere questa cosa. Sono ancora nel caos.

Come ti dividi oggi tra Milano e Taranto, la città dove vive la tua famiglia?

Non mi divido. Fin da piccolo, per il lavoro di mio padre, vivevo un anno e mezzo in una città e poi mi trasferivo in un’altra. Ho vissuto anche dei traumi. Creavo nuove amicizie, poi le lasciavo e ricominciavo daccapo. Mi ha segnato e in qualche modo quel distacco me lo porto dentro. Però mi ha insegnato anche ad affrontare i momenti di solitudine che ho vissuto a Milano e Roma.

In questo periodo Milano sta cambiando. Tu, che l’hai scelta, come la vivi?

Mi ha accolto bene, ma da qualche mese sento che si sta allontanando da me. Non so se è per qualcosa che è accaduto alla città. Culturalmente sento che è attiva, ma forse il problema sono io.

“Non sei tu, sono io” si dice quando si vuole lasciare qualcuno in modo elegante. Stai per lasciare Milano, quindi?

Sento di avere bisogno di nuovi panorami, di una nuova visione, di aria. Sto pensando a scelte radicali. Sogno di vivere dei periodi in un posto, e periodi in un altro. Magari a Parigi, magari in un’isola. Ho passato i mesi di settembre e ottobre in giro per il tour, era un momento caldo politicamente per il nostro Paese (è cambiato il governo, ndr) e mi sono nutrito di nuove energie all’estero. Un mix di culture che s’incontrano, progrediscono e per forza di cose crescono insieme. L’assenza di questi stimoli in Italia mi fa provare una certa povertà. Vivere come delle monadi, in uno stato di isolamento, all’interno solo del proprio nucleo porta a spegnersi. Bisogna aprirsi e abbattere le barriere.

Questo mi fa capire che non hai ancora messo nuove radici.

Le radici sono pugliesi, ti ricordo che mia madre è di Taranto.

A proposito, da alcuni anni sei direttore artistico del concerto Uno maggio Taranto libero e pensante, con Michele Riondino e Roy Paci. Come scegli gli artisti da far salire sul palco?

La musica può essere rivoluzionaria anche se non va a toccare esplicitamente certi temi. Non è necessario avere canzoni militanti ma avere una visione del mondo comune. Se vieni a Taranto e su quel palco canti Almeno tu nell’universo, stai creando una connessione forte con ciò che sta accadendo lì. E l’emozione è amplificata anche da quella connessione. Quando ascolto Lucio Dalla lo colloco all’interno di un periodo storico, sento dei richiami a una fase della nostra storia, io lo sento parlare di lavoro. La musica parla, porta messaggi. Viviamo in tempi in cui agli artisti viene detto «pensa a cantare», come se fosse slegato dalla società. Ma non è così.

Vivere a Taranto ti ha reso sensibile a certi temi, come quello ambientale e sui salari minimi. Ti piace la nuova segretaria del Pd Elly Schlein?

Sì. Mi piace anche che ci sia una donna all’opposizione. E mi piace ancora di più che ci siano due donne a confronto (lei e Meloni, ndr). La dialettica è fondamentale per crescere. E Schlein si sta rivelando incisiva. Arriva dal basso, sa di nuovo, porta messaggi che pensano in tanti. E che parlano alla parte sana della società che non vuole farsi guidare dal terrore, dalla paura, dall’indifferenza, dall’ignoranza, dalla non conoscenza. Mi fa sperare.

A Los Angeles, da dove sono appena tornata, le App vengono usate per gli incontri tra uomini e donne. Dicono sia un modo rapido e sicuro. Gli uomini, in particolare, non approcciano più le donne perché temono di essere accusati di molestie.

Vuoi sapere se sono su un’App d’incontri?

Sei su un’App?

Non sono su un’App e mi dispiace un po’.

Ti renderebbe l’approccio più facile?

No. Però è vero, percepisco il timore maschile, sento la pressione su di me in quanto uomo. Stiamo arrivando a un’esasperazione dei ruoli, forse è anche un modo per ripareggiare i conti.

Qual è una delle tue canzoni che ti aiuta di più?

Per far partire una storia d’amore?

Anche solo una serata.

Piccante?

Sì.

Scelgo Che casino. Lì c’è una frase: «Chi è avvisato non si è mai salvato». Ogni volta che dico lasciami perdere, non succede mai.

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