Al Pac di Milano (fino all’11 giugno) sono esposte due opere realizzate da due personalità artistiche differenti e appartenenti a due progetti espositivi distinti ma che andrebbero viste una dopo l’altra. Per una felice intuizione curatoriale infatti Il popolo delle donne di Yuri Ancarani, raffinato e celebre artista videomaker, e Sexually Explicit di Silvia Giambrone, artista dichiaratamente femminista, innescano tra loro uno stimolante dialogo a distanza.

Davanti alla proiezione video nella sala semi buia (vietata ai minori di 18 anni) allestita attorno al video di Silvia Giambrone ci sono delle panchine ma è pressoché impossibile restare seduti e farsi spettatori passivi di una violenza così reale come quella raccontata in quest’opera. Nel suo video infatti l’artista parla di un caso subito di molestie online.

Per circa un anno Giambrone ha accumulato nella sua cartella delle richieste di messaggi di Messenger (quella che non si apre quasi mai) testi osceni e oltre 40 video inviati da un uomo che si masturbava davanti al cellulare. Queste immagini, volutamente non rimaneggiate ma mostrate nella loro integrale brutalità non lasciano scampo e inchiodando l’accaduto a una realtà disturbante.

Le riprese sono montate e inframmezzate dalla voce dell’artista che racconta della sensazione di pericolo, della difficile condivisione dell’accaduto con altre persone e del tentativo di denuncia, scontratosi contro il muro di una procedura che anziché proteggere la vittima la espone ancora di più, impedendole di agire nell’anonimato.

Violenza di genere

Se Giambrone ci mette faccia a faccia con una violenza online e intollerabile, Il popolo delle donne, l’ultimo film di Yuri Ancarani (premio Acacia 2023 ed esposto all’interno della sua più ampia personale Lascia stare i sogni) è dedicato alla riflessione teorica intorno al tema della violenza di genere, nulla a che vedere con quell’allegoria un po’ grottesca dell’assonante Città delle donne di Fellini del 1980.

Un lungometraggio, quello di Ancarani, che tiene gli spettatori letteralmente incollati alla panchina per più di 45 minuti ad ascoltare le parole di Marina Valcarenghi, giornalista e attivista politica negli anni Sessanta e Settanta e psicoanalista nelle carceri nei reparti dedicati alla violenza sulle donne. In questo film è riproposta una conferenza tenutasi nel cortile dell’Università Statale di Milano, di cui intuiamo solo all’inizio e alla fine la presenza fisica di un cerchio di persone in ascolto attorno alla relatrice, mentre per tutta la durata del suo intervento vediamo solo lei.

La protagonista è mostrata da angolazioni diverse che vanno dal mezzo busto in cattedra fino a un ravvicinato primo piano che si stringe sul volto, mostrandone tutta l’espressività, non solo della mimica facciale ma, forse è ciò che colpisce e inchioda più di tutto, anche della voce, dei suoni e del parlato che lascia trasparire un sentire profondo. Ancarani nei suoi film ha spesso trovato la bellezza di un’umanità anche nelle situazioni più impensate e anche in questo caso riesce a restituire non solo il peso delle parole ma anche l’intensità dell’esposizione orale.

Il cortocircuito

Quelle proposte sono tesi che non ci mettono a nostro agio, eppure vengono raccontante in un modo così chiaro e convincente da sembrare scontate. Valcarenghi sostiene infatti che la crescente violenza maschile nei confronti delle donne sia un fenomeno dovuto alla paura di un territorio invaso – forse la stessa sensazione di pericolo che assaliva Marcello Snaporaz nella pellicola di felliniana memoria – con molto ritardo nella storia ma con grande velocità rispetto al lungo periodo di soggiogamento subito dalle donne, che nel giro di trent’anni hanno acquisito diritti fondamentali mai ottenuti in millenni.

Questo avrebbe destabilizzato e provocato un crescente timore nell’inconscio maschile collettivo, dopodiché, come sostiene Valcarenghi in un passaggio potentissimo: «La paura genera l’odio». Le sue idee sono sostenute da testimonianze provenienti dai tribunali e dal suo lavoro sul campo all’interno delle carceri oltre che dallo studio teorico. Il film si chiude con una riflessione ancora una volta poco confortevole sulla necessità di denunciare nonostante le difficoltà enormi che il sistema ancora oggi impone alle donne vittime di violenza.

È così che le due opere risuonano tra loro, perché mentre Valcarenghi parla è impossibile non tornare con la mente all’opera di Giambrone. Queste due opere, è importante sottolinearlo, sono state realizzate da un’artista e da un artista, evidentemente uno di quegli uomini che Valcarenghi chiama alleati, cioè coloro che sono coscienti del fatto che le donne (in quanto popolo esteso e non territoriale) abbiano subito nella storia un’ingiustizia che non bisognerebbe temere di correggere.

Il cortocircuito tra questi due lavori è potentissimo e continua a lavorare nei pensieri come un tarlo, disturba ma rende coscienti, come la migliore arte sa fare, e più forti consapevoli di trovarsi all’interno di un popolo numeroso del quale fanno parte anche gli uomini migliori.

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