Qualche notte fa ho fatto un incubo. C’erano Fedez e Luis Sal che mi chiedevano un consiglio: «Senti, vogliamo invitare a Muschio Selvaggio, il nostro podcast, qualcuno che parli di poesia. Qualcuno che faccia divulgazione sulla poesia come Adrian Fartade parla di astronomia o come Maura Gigliotti parla di squirting. Chi ci consigli?». Io rimanevo impietrito, senza saper rispondere. Al risveglio ero scombussolato, scosso: davanti a una situazione simile sarei realmente messo in difficoltà, perché non conosco nessuna figura in grado di parlare di poesia in modo divulgativo.

Tutto questo turbamento può sembrare certamente strano. Ma per uno a cui la poesia sembra un qualcosa di davvero importante, questa situazione risulta angosciosa.

Perché la poesia non riusciamo a spiegarla? Non possiamo dire che la poesia non interessi. Nemmeno la natura dei koala, potenzialmente, ci interesserebbe: eppure siamo in milioni a guardare i video di Barbascura X in cui ci racconta i segreti più scabrosi delle vite di certi animali. Non è nemmeno vero che la poesia è troppo difficile per essere divulgata. Lo è più della storia dell’arte e della semiotica? Migliaia di persone seguono sui social Alessandro Carnevale che affronta proprio questi temi.

Insomma: in questo momento storico, mentre la pratica della divulgazione tocca praticamente ogni anfratto del sapere (rendendo accessibili conoscenze come mai prima d’ora), una branca della cultura come la poesia continua a rimanere relegata in una torre d’avorio, circondata da una élite di guardiani professorali.

È dunque necessario provare a comprendere, per quanto possibile, i motivi di questo posizionamento della poesia nel mondo culturale.

Le ragioni

Il primo motivo è sicuramente da rintracciare nella bolla accademica. Il discorso sulla poesia si incontra per la prima volta a scuola, dove per forza di cose è stretto nei programmi ministeriali.  Poi, eccolo ricomparire all’università. Ma qui avviene un bug importante: i docenti che parlano di poesia sono pochi e lo fanno proponendo uno specifico magistero, una visione propria e – cosa pericolosissima – una posa, un atteggiamento che quasi sempre sottende un certo senso di superiorità. D’altronde, quando la materia è così esclusiva, è difficile che questo pensiero non contamini chi la insegna. Gli studenti ricevono quindi (più o meno passivamente) una forma mentis e un modus operandi che da quel momento in poi determinerà il loro approccio alla poesia, che sarà una specola della letteratura sulla quale in pochi possono davvero affacciarsi – soltanto quei pochi che hanno avuto la fortuna di abbeverarsi alla fonte del sapere di quel determinato, sparuto, docente. Chiamiamole bolle, scuole, conventicole: sono, comunque, segmenti in cui persone si ritagliano una sorta di spazio identitario, abbrancandosi alla scienza ottenuta in aula come un Gollum all’anello del potere. La poesia diventa un “mio tesssoro”, un materiale culturale che possono capire solo “quelli come me”.

Da qui si scivola nel secondo micro-dramma che pare avvolgere l’isolamento culturale della poesia (e ciò che impedisce la realizzazione di una vera e propria attività di divulgazione attorno a essa): la questione del metalinguaggio. Sembra infatti impossibile (toccando i margini del divieto) parlare di poesia esprimendosi con una lingua comprensibile ai più. Appare inaudita la possibilità di non costruire frasi complicate e inaccessibili, composte con parole che sono significative soltanto che per coloro che sono passati attraverso un preciso training accademico. Ecco di seguito un passaggio di un articolo (pensato come non scientifico) sull’opera Laborintus di Edoardo Sanguineti: «L’abiura dello statuto lirico monologista si compendia riccamente nella ars provocatoria che in questo testo affastella accumuli semantici. Si assiste a una liturgia del testo che sottende un canone privato, costituitosi in una genealogia disarmonica nella quale si discende in una Malebolgia intrapsichica in grado di destrutturare ogni titanismo lirico in favore di un soggetto colto in un peregrinare selenita». Di chi è l’articolo? Mio. Resistere al fascino del “difficilese” è arduo – soprattutto se non si è fatta una certa analisi di coscienza.

In questo intorbidimento del linguaggio, risultano così quasi miracolose alcune esperienze. Come le lezioni universitarie di studiosi come Alberto Bertoni (non a caso il suo ultimo libro di versi, L’isola dei topi, uscito per Einaudi nel 2021, dimostra la capacità di Bertoni di essere trasversale e mai sterilmente elitario anche come poeta), o come certi volumi che provano a raccontare la poesia attraverso modalità narrative agevoli e suggestive (prontamente esclusi o ignorati dai sedicenti esperti della materia): penso allo splendido e magnetico Attraverso persone e cose. Il racconto della poesia, di Gian Luca Favetto (Add, 2020), o allo straziante portale letterario verso la poesia di Amelia Rosselli costruito da Alice Zanotti con l’eccellente esordio Tutti gli appuntamenti mancati (Bompiani, 2021), oppure alla godibilissima serie di biografie poetiche realizzata da Fabio Stassi in Con in bocca il sapore del mondo (Minimum fax, 2018).

Divulgare oggi

In questi nuovi anni Venti la divulgazione è divenuta un meccanismo virtuoso capace di coniugare ogni tipologia di pubblico con saperi che, per antonomasia, sono sempre sembrati ostici o impenetrabili. È dunque triste e allarmante vedere quanto, in Italia, questo processo non abbia ancora nemmeno lontanamente riguardato la poesia. Possiamo aprire YouTube e capire complicatissimi concetti di fisica con i video di Costanza Polastri (Polynerdeia). Possiamo imparare nozioni preziosissime sull’alimentazione seguendo i social di Dario Bressanini. Possiamo scoprire moltissimo sulle tematiche riguardanti la sessualità con il podcast di Immanuel Casto. Possiamo farci largo nella selva delle questioni sanitarie e mediche grazie alla pagina Instagram di Roberta Villa. Ma di poesia, invece, non possiamo capirci nulla – a meno che non si abbia il privilegio di frequentare certi mondi accademici o certe individualità che, narcisisticamente, assumono lo statuto non richiesto di maestri.

Questo avviene perché – sia che si sia già in sella, magari all’interno di una qualche branca dell’insegnamento, sia se si è giovani che aspirano al ruolo – non si può non avere paura di approcciarsi alla poesia in modo divulgativo: le accuse di “appiattimento” e di “banalizzazione” sarebbero scontate (vengono rivolte ad Alessandro Barbero, figuriamoci). E questo tipo di gogna – nel caso dei più giovani – rischierebbe di precludere dei percorsi professionali per la persona che ha in animo di rendere fruibile e gustosa anche soltanto la “semplice” storia della poesia italiana. Chi se la sente di rischiare?

Ognuno dei numerosi protagonisti della echo-chamber poetica è convinto di detenere la corretta gestione di questo mondo culturale. E difatti le conversazioni attorno alla poesia si riducono quasi sempre ad agghiaccianti momenti di mansplaining dove un poeta (sì, maschio, e quasi sempre nato prima degli anni Ottanta) spiega, con parole confondenti come un gas, com’è che funziona la poesia – innestando il suo piccolo sciame di proselitismo, rendendo fascinosa anche la sua verbosità che, al di fuori della sua koinè, provocherebbe soltanto un grande imbarazzo vicario.

Bisogna dirlo: forse stiamo perdendo un’occasione. Nasconderci dietro la coltre fumosa della poesia intesa come un’arte tanto sacra da poter essere maneggiata soltanto da certe tipologie di esperti sta portando, forse, a mettere in pericolo l’esistenza stessa di questa espressione umana. Continuando in questo modo non smetteremo mai di emettere trenodie sulla poesia che «non interessa a nessuno», «non vende», «è morta». E in spazi come Muschio Selvaggio non vedremo mai una persona che si occupa di poesia: per la gioia della torre d’avorio e per l’amarezza di chi alla poesia, in fin dei conti, vuole bene – tanto da farci degli incubi.

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