Il volto di Don DeLillo è una maschera di pietra. Non è scortese, non è scorbutico, è molto galante, ma non tradisce mai un’emozione. Rumore bianco, pubblicato per la prima volta nel 1985 (e ripubblicato ora da Einaudi aggiornato nella nuova traduzione di Federica Aceto) e considerato il primo grande romanzo postmoderno americano, è probabilmente la sua opera che più gli assomiglia. Perché su quella spianata di roccia inscalfibile che è la sua fronte, se si presta bene attenzione, si può notare una ruga vibrante. Ecco, lì sotto si trova il genio ironico, sornione e incontrovertibile che si riflette sulla pagina. Lì si annida la certezza di conoscere il futuro, e l’intenzione di non rivelarlo mai del tutto.

Prima di Rumore bianco, la narrativa di DeLillo era quasi materia da estimatori. Pagine aliene, negli anni Settanta, che si aggiravano sottotraccia a spezzare la quieta anima sovversiva del nuovo canone letterario statunitense. Da Americana a Cane che corre, DeLillo aveva tracciato una specie di tavola di progetto per un futuro prossimo grottesco, dove l’ideale meccanico del progresso automobilistico si mischiava con una nuova idea di Übermensch americanissimo e imbattibile. Il dio del football e della televisione, celebrato al suo massimo prima ancora della sua comparsa. Poi sono venuti gli anni Ottanta e gli hanno dato ragione. Così lui, senza mai perdere il suo aplomb, si è trasformato in un profeta.

Dopo sarebbero saltati fuori gli altri postmodernisti, da David Foster Wallace a Paul Auster, seguiti dai “romanzieri al neon” come Bret Easton Ellis e Chuck Palahniuk. Ma prima, a riscrivere l’intricato incubo di Gore Vidal, che da un paio di anni aveva pubblicato Duluth, era solo DeLillo. Improvvisamente la letteratura perdeva i suoi eroi, positivi o negativi che fossero. I conquistatori del confine di Willa Cather, sfumati nei migranti di Bernard Malamud e sbiaditi nelle nevrosi da Saul Bellow a Philip Roth, si facevano da parte per lasciare spazio a quel complesso sistema di equilibri che era il mondo costruito da un newyorchese di origine molisana – niente a che vedere con gli intricati sogni bagnati di John Fante – appena tornato da una scoperta di sé tra il medio oriente e il Mediterraneo.

Un fondale riconoscibile

L’ambientazione di Rumore bianco è già una dichiarazione di intenti. La scena d’apertura è una parata trionfale: l’inaugurazione di una nuova normalità. Il luogo può tranquillamente essere sovrapposto a quello che John Williams ha definito «comodamente quieto e silenzioso, senza niente da rimproverarsi se non le occasionali serate di noia».

Un college del Midwest, bucolico e intellettualmente allineato, dove all’apertura dell’anno accademico sfila una schiera di station wagon che ricorda, sicuramente con intenzione, le stanche e polverose colonne di carri che dalla via del deserto approdavano in California e in Oregon ai tempi dei pionieri dell’ovest; ma chi smonta dalle macchine non porta beni di prima necessità, bambini urlanti fasciati e palle di stracci; bensì computer, stereo, asciugacapelli e tutto ciò che nel rombante decennio in cui l’ottavo romanzo di DeLillo è stato pubblicato potesse rappresentare il benessere alienante del secolo in corso. Madri apprensive e padri bonari salutano col cuore in gola i figli adolescenti mentre si allontanano verso la loro prima frontiera personale e scompaiono negli edifici dei dormitori, oltre gli aceri arrossati del primo settembre. DeLillo sapeva quello che faceva: si appropriava di un fondale riconoscibile, replicato così spesso dai suoi colleghi e connazionali da essersi trasformato in un topos. La scenografia per i segreti di professori ardimentosi e dilaniati dall’erotismo latente, che lui aveva tutta l’intenzione di trasformare in uno scenario da apocalisse privato.

J.A.K. Gladney, il contro-eroe delilliano, guarda quei ragazzi passare e li definisce “una nazione”. Come i profughi di John Steinbeck, in movimento alla ricerca di una nuova, disperata, felicità, alla quale nessuno crede davvero.

Gladney è un ossessivo, insegna Hitler, ha paura di morire e ha dato a suo figlio un nome tedesco per proteggerlo dall’arroganza del mondo. Come quei nazisti che «indossano un’uniforme per sentirsi più grandi, più forti, più sicuri», per metterla come il protagonista di Rumore bianco la mette a sua figlia quando lei candidamente gli chiede “perché?”. Attorno a Gladney emerge una società assurda e assurdamente consumistica, innamorata della propria immagine e compulsivamente legata ai propri continui travestimenti. Il sogno americano sotto anabolizzanti di Ellis, ancorato paradossalmente alla cordiale letteratura dei college del New England. Dove, mentre nella mente di Gladney alle prese con i suoi pensieri hitleriani esplode la bomba del dubbio, un evento potenzialmente catastrofico trasforma gli abitanti del campus nei profughi dell’incipit.

Gli «emigranti trasformati in nomadi» di Steinbeck, qui incarnati nella classe media intellettuale, stupefatta dalla sorte improvvisa e costretta a lasciare casa e valori per sfuggire alla minaccia di una nube tossica, in una svolta ucronica alla Kurt Vonnegut. E così DeLillo ha compiuto il suo grande gesto: esportare l’immaginario letterario e gettarlo nel caos della nuova distopia, mantenendo la narrazione sempre in bilico tra il credibile e l’incredibile. Un’impresa poi replicata, abbellita, ricolorata, ma mai eguagliata. In questo senso, Rumore bianco è stato un precursore: il prototipo della narrativa delilliana in divenire, che poi si sarebbe affermata come una specie di genere a sé da Libra a Cosmopolis, attraverso una sequenza di romanzi in grado di piegare la realtà alle ragioni della narrativa con potenza straordinaria.

Quando nel 2014 il regista Paul Thomas Anderson adattò Vizio di forma per il cinema, il sentimento comune era che si trattasse di un’impresa piuttosto ardimentosa. Nella migliore delle ipotesi il capolavoro di Thomas Pynchon era stato definito “inadattabile”, nelle peggiori “irricevibile”. In quel periodo, a un’inaugurazione in una galleria di Manhattan mi capitò di incontrare DeLillo e, tra le poche parole frettolose che saettavano qui e là attraverso i corridoi, vorticando tra i gruppetti disposti a cerchi in continuo interscambio, il discorso cadde sul film di Anderson.

Infilmabile

DeLillo, come al solito, non parlava. Ma ascoltava e la sua ruga sulla fronte vibrava di impazienza. Quando tutti i componenti del nostro cerchietto ebbero detto la loro e appena prima che avessero il tempo di voltarsi per dedicarsi a un altro circolino adiacente, DeLillo alzò un dito e sorrise con un angolo della bocca. Il cerchio si azzittì: stava di nuovo per profetizzare. «Aspettate che a qualcuno venga in mente di adattare Rumore bianco», disse facendosi scappare una risatina di gola. Poi si ricompose e tacque – probabilmente per il resto della serata.

Ora che la profezia si è avverata e che Noah Baumbach ha in effetti adattato il suo romanzo “infilmabile”, (su Netflix) i commenti ricordano quelli riservati ad Anderson. È comprensibile: tradurre in immagini le evoluzioni della mente di Gladney senza cedere alla tentazione di buttare il racconto sul piano apocalittico, trasformandolo nella cronaca di un disastro, non deve essere un obiettivo da poco. Dopotutto, nelle intenzioni di DeLillo, Rumore bianco non è mai stato un romanzo catastrofico.

Piuttosto un libro ironico, disilluso, a tratti crudele. E queste caratteristiche, che in alcuni casi potrebbero essere considerate a supporto della trama, qui sono assolutamente centrali. Come mettere in pellicola Mattatoio n.5 limitandosi allo spazio e al bombardamento di Dresda (lo hanno fatto nel 1972, non è finita bene). Certo, Baumbach la vena ironica ce l’ha, e il film ricorda per certi versi A Serious Man dei Coen, ma resta il problema della stratificazione: quell’universo parallelo che scorre dentro al protagonista e che fa da contraltare al mondo di fuori, pubblico, condiviso – difficilmente visibile quando trasposto su uno schermo.

Non sono ancora riuscito a capire cosa ne pensi veramente DeLillo. Probabilmente commenterebbe in tre parole fulminanti, mentre la ruga ironica balla la samba sul ritmo di un adagio attribuito a Orson Welles: «Quando interviene il cinema, le intenzioni intellettuali decadono e lo spettacolo prende il sopravvento». Non è sempre un bene.
 

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