Donnaregina è un romanzo libero, folle, poetico sull’amicizia e le affinità impreviste. Il libro in cui il progetto letterario della scrittrice prende pienamente coscienza di sé. Un romanzo dolorosissimo ma, insieme, il più divertente che Teresa Ciabatti abbia scritto
Cosa cerchiamo nei libri? Intrattenimento, conforto, virtù, svago, bandiere. Nei libri di Teresa Ciabatti, nulla di tutto questo. Almeno da La più amata in poi, la scrittrice romana nata a Orbetello usa la narrativa come metodo – prettamente linguistico e visuale – per esplicitare i legami che altrove non notiamo, ammettiamo, sopportiamo che esistano. Ovvero, per espandere la percezione media, depositata, e le nostre stagnazioni estetiche, identitarie, mentali.
Cosa distingue – davvero, fuor di stereotipo – i buoni dai cattivi, le madri dalle matrigne, i padri dai padroni? Ecco l’ossessione che lampeggia all’interno di una scrittura basata tutta sulla voce.
Una voce narrante, altrove definita caustica, spudorata, fastidiosa, ma che è, in realtà, soprattutto a caccia di connessioni inaudite. Una voce inquieta, nel senso di grandemente curiosa, che scava, ribalta, istiga e dissacra per generare una qualche, nuova scintilla di senso: per rigenerare, rigenerarci, nell’attaccamento a canoni e abitudini, nella nostra pigrizia di lettori e/o scrittori, che passano il tempo a ripetersi l’identico.
In Donnaregina, in libreria per Mondadori, accade esattamente questo, ma è anche il libro in cui il progetto letterario di Ciabatti prende pienamente coscienza di sé e, nel farlo, oltrepassa i confini del racconto personale-famigliare.
La miccia di interesse collettivo è l’incontro col superboss della camorra Giuseppe Misso – ‘o Nasone, ‘o Gioiello – «accusato di rapina a mano armata, furto, associazione a delinquere, associazione mafiosa, 38 omicidi commessi, 108 ordinati, ma per qualcuno molti di più».
Ma è subito chiaro che non si tratta né di reportage, né di ritratto: Peppe Misso – spietato, tenero, normalissimo – è un pretesto eclatante, un paravento decorato con forme terrorizzanti, dietro il quale prende forma, capitolo dopo capitolo, una serrata meditazione su temi quali: l’identità personale e la malattia, il giudizio morale e la genitorialità, la salute mentale degli adolescenti e il ruolo dell’artista, la funzione di memoria e immaginazione di fronte al nostro bisogno di verità.
La protagonista/alter ego di Ciabatti entra in contatto con Misso per un’intervista affidatale dal quotidiano con cui collabora, e ne deriva un sodalizio controverso, un tiro alla fune che ha per oggetto principale (e alibi) la rappresentazione del capo clan. Intanto l’amica M. (inevitabile il collegamento a Murgia) è alle prese con un tumore all’ultimo stadio (indelebili e struggenti le scene dello smalto e dei ghiaccioli), la figlia Camilla manifesta fragilità psichica, il cimitero dove sono sepolti i genitori frana. Intanto nei giardini delle case si parla alle microspie nei cespugli («aiutateci»), i ragazzini si tagliano e buttano dalle finestre, dal cielo arrivano gli ufo.
Nell’affastellarsi di personaggi e accadimenti, in questo intarsio di generi che, di fatto, è un genere a sé – Ciabatti scrive libri che viene da appaiare solo tra loro – s’instaura una sorta di conversazione sovrasensibile e insieme materica, che esplode nella lingua più originale della nostra narrativa.
Corpi come totem
I libri di Teresa Ciabatti sono libri di corpi – umani, animali, architettonici, inanimati – che appaiono e si dileguano, si dilatano/rimpiccioliscono, trasmutano gli uni negli altri.
Corpi che diventano totem, sigilli (l’anello, il cigno, la piscina, lo zaino a koala, e qui: l’orso di peluche, il fenicottero rosa, i colombi allevati da Misso). La prosa iconopoietica crea marchi, emblemi, piccoli miti, che riempiono gli occhi e le orecchie di chi si affaccia sulla pagina. E non si tratta di mero gioco intellettuale: la posta in gioco è il peso che, come singoli e come comunità, attribuiamo a fatti ed eventi.
Donnaregina, romanzo in cui l’anomalia di un femminile non conforme si rispecchia nell’anomalia sociale del superboss, è soprattutto un libro sulla misura delle cose, sulla scrittura come tentativo – contraddittorio, paradossale – di definire la rilevanza/gravità di gesti e figure, azioni e reazioni. Misurare il mondo attraverso lo strumento dell’immaginazione: una volta, dieci, mille, fino ad arrendersi alla compassione che pensavamo di non possedere. Fino al rispecchiamento imprevisto sul fondo della nostra comune, indicibile umanità.
Quella che, nel romanzo finalista allo Strega 2017, era la figlia più amata del Professore, santo/luciferino primario (forse piduista) all’ospedale di Orbetello, si reincarna ora nella confidente preferita del feroce camorrista napoletano: Ciabatti torna a orbitare attorno al potere – violento, maschile – del capofamiglia, stavolta nella sua variante più estrema e mediatica, e, sedotta/impaurita, contratta. Simula, seduce, divora? Minuscola e smisurata, arriverà (forse) a imporre uno sguardo che fa, del grande mafioso, qualcosa d’altro (indifeso, goffo, benefattore). Chi è, in questa storia, che davvero supera il limite?
A colpire è, come sempre con l’autrice, lo stile, fatto di frasi concentratissime, distillate, spezzate e rimontate, tutte ritmo e urto semantico. La sottrazione sintattica è la via per mettere in evidenza i rapporti strabilianti tra le cose, in un continuo di cortocircuiti, epifanie, capovolgimenti: c’è un arpionarsi ai dettagli che si ripresentano ossessivamente, a ondate, tracciando spirali di senso sempre ulteriori, in questo amalgama zigzagante di materiali che rinnova la prosa del romanzo coi parossismi del digitale, della compulsione psichica, e persino di certe scritture rap/trap, quando costellano intere discografie di autocitazioni e feticci idiomatici.
Donnaregina è un romanzo libero, folle, poetico, sul crimine e la maternità (sono poi così distanti?), sull’amicizia e le affinità impreviste (a pagina 197: «Non la condivisione di DNA quindi, i rami del mio albero personale, quello che mi emoziona e commuove, l’albero su cui posiziono i miei affetti, sono le possibilità di esistere, i tanti modi di rimanere in vita»).
Un romanzo dolorosissimo ma, insieme, il più divertente che Ciabatti abbia scritto: è un piacere, conturbante e raro, stare con gli occhi su queste pagine dalle quali balzano fuori, a oltranza, creature irresistibili, lampi e visioni di una strega-bambina classe 1972, privilegiata/mortificata che, nell’angolo degli inadeguati, dei corpi che non contano, a un certo punto ha scoperto un potere altro, con cui difendersi dalle gerarchie e dalle umiliazioni.
Il potere di immaginare, soffiare immagini nel cuore altrui, e quindi cambiare di segno ai rapporti di forza. Strapazzare, irridere, giocarci, coi mostri.
Relativismo sentimentale
Quando ci si chiede dove cercare alternative alla polarizzazione imperante, agli schemi di pensiero binari, che desertificano il territorio creativo, letterario, è in autori, autrici come questa, in romanzi come questo che si deve andare a guardare. Autori/autrici e romanzi che coltivano un relativismo sentimentale che non è cinismo, ma capacità di affondare nella realtà degli esseri umani, pieni come siamo di smottamenti, tradimenti, indesiderate agnizioni. Mettere a distanza siderale il male, la minaccia, il nemico, in certi contesti – d’emergenza – è necessario, inevitabile: ci salva la vita. Ma, una volta sopravvissuti, sopravvissute, ci salviamo la ragione e la creatività nel riprenderci il piacere di aprirci alla moltitudine di passaggi e riflessi con cui rinnovare la nostra visione del mondo, riconoscendo che tutto è più stratificato, misterioso e cangiante di quel che ci siamo abituati a pensare.
In ognuno di noi s’annidano molte persone, maschere, ruoli, e se non sono (specie oggi) la politica e i social i luoghi in cui far vivere questa ambivalenza – che è anche riconciliazione del conflitto, disinnesco dell’odio – è pur vero che ci restano i libri. Specie quelli delle intrepide, paurosissime, ragazze di Maremma, a cui basta un solo paragrafo per sbriciolare ogni edificante classificazione e proiettare, al suo posto, un concitato, ingegnoso, gioco delle ombre e degli ologrammi.
Un po’ una pozione segreta di sfacciataggine, analogie e tenerezza, con cui fluidificare il giudizio e riaffermare la nostra libertà di essere tutto e nulla, figli amati e abbandonati, mamme inadatte e femminielli, geni acclamati e vanagloriosi falliti, killer e anime pezzentelle. Tutto insieme, a fasi e in sovrapposizione, proprio perché altrove è disdicevole, controproducente, proprio perché altrove è impossibile.
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