In un mondo che vede la geografia umana sconvolta da guerre, crisi umanitarie e violazioni dei diritti umani su larga scala, le donne e le bambine rappresentano circa la metà dell’immensa popolazione di rifugiati, sfollati interni, apolidi che percorrono le rotte migratorie globali. L’esperienza della donna privata della protezione del proprio stato e che per questo chiede asilo a un altro paese non è una novità del nuovo millennio. Donne sono state costrette all’esilio nel corso della storia, e, soprattutto se guardiamo alle vicende della prima metà del Novecento europeo, di molte conosciamo la storia e gli scritti. Ciò che oggi colpisce è la dimensione massiva della migrazione femminile, che suscita di per sé un nuovo interesse, in particolare in quanto componente dei flussi migratori definiti “forzati”, ovvero dei movimenti di persone rifugiate o sfollate (displaced people) causati da conflitti, disastri naturali e ambientali, disastri chimici e nucleari, fame o progetti economici.

Ma nel discorso pubblico occidentale, la donna richiedente asilo e rifugiata è al centro di paradossi e contraddizioni. Da un lato, è impossibile non notare la particolare invisibilità di cui soffre, a livello sia sociale sia giuridico-politico. A livello sociale, perché le differenze di genere faticano a farsi spazio nei discorsi sull’asilo, e sono raramente indicate nelle statistiche a larga diffusione. E a livello giuridico-politico, perché gli strumenti del diritto internazionale dei rifugiati e le politiche di accoglienza e protezione stentano a integrare la dimensione del genere, universalizzando l’esperienza del soggetto maschile.

Dall’altro lato, la donna rifugiata è divenuta l’immagine emblematica delle migrazioni forzate nel discorso umanitario. E questo dato va collocato nel più ampio processo che vede il passaggio dal politico all’umanitario nel discorso sull’asilo. Nota Giorgio Agamben (Mezzi senza fine) che ogni volta che i rifugiati si sono trasformati da casi individuali in fenomeno di massa (come avvenne tra le due guerre mondiali, e come avviene nel nostro tempo), gli stati e le organizzazioni internazionali si sono dimostrati assolutamente incapaci di affrontarlo, trasferendone la competenza nelle mani della polizia e delle organizzazioni umanitarie. Questo processo può essere descritto anche come il transito della figura del rifugiato da soggetto politico a soggetto umanitario, che erode il potenziale di contestazione che l’asilo comporta dinnanzi alla costruzione dello stato-nazione.

Soggetti impolitici

Sullo sfondo di questa generale depoliticizzazione dell’asilo e del rifugiato, chi meglio delle donne – soggetto impolitico per eccellenza nel pensiero occidentale – poteva rappresentare il passaggio alla figura del rifugiato come soggetto impolitico, meramente bisognoso di aiuto? La ricostruzione storica di questo nesso permette di evidenziare una connessione stretta tra il momento in cui le donne iniziano a comparire sulla scena pubblica delle migrazioni forzate e la depoliticizzazione del discorso su di esse. L’enfasi retorica e comunicativa sull’immagine della donna richiedente asilo e rifugiata coincide dunque con l’esaltazione del suo carattere di vittima. È importante notare, per di più, che all’interno dei circuiti di aiuto e della burocrazia dell’asilo dall’enfasi sulla vittima non deriva uno sforzo proporzionale di riparazione del dolore e di sostegno per la costruzione di una vita umana piena. Al contrario, la risposta si sostiene su modelli disciplinari e pedagogici volti a plasmare una soggettività conforme alle esigenze del paese di accoglienza, cioè ai percorsi di inclusione subalterna in un sistema di diseguaglianze di genere, “razza”, nazionalità, classe

Se è così, adottare una lente di genere nella lettura dei fenomeni di migrazione forzata appare come un compito impegnativo e senz’altro cruciale. Quest’ottica consente non solo di rilevare l’incremento numerico delle donne tra le persone che chiedono asilo nel mondo, ma anche di volgere l’attenzione al diverso impatto che conflitti e crisi umanitarie hanno su donne e uomini, a come le diseguaglianze di genere incidano sulle modalità della fuga, del viaggio, dell’arrivo, e a come queste diseguaglianze si intreccino ad altre, basate sulla nazionalità, la “razza” o la classe.

Più in profondità, però, la figura della rifugiata mette in crisi concetti politici consolidati, come quelli di stato, nazione, cittadinanza, e avanza potenzialmente una critica profonda al diritto che sovraintende all’accoglienza e protezione di chi chiede asilo. (…) Nel corso del Novecento, che non per caso è spesso chiamato il secolo delle donne, in molti ordinamenti si è pervenuti al riconoscimento della piena parità di diritti tra i sessi. Ma la cittadinanza resta incompiuta a causa del persistere, in vesti antiche e nuove, del sistema secolare di controllo e subordinazione sui corpi femminili che chiamiamo patriarcato.

Il Novecento è stato definito anche il secolo dei rifugiati, data la vastità e gravità dei fenomeni di espulsioni di massa. Anche su questo versante, a partire dagli anni Cinquanta, si sono registrati importanti avanzamenti del diritto internazionale e in quello interno di molti paesi del mondo. Tuttavia, nel nostro tempo, tornano a rigare il globo i muri dell’esclusione, che impediscono l’ingresso anche alle popolazioni in fuga da guerre, persecuzioni e crisi umanitarie.

Senza un posto del mondo

Nel suo Stati murati, Wendy Brown ha mostrato come il proliferare di barriere a protezione degli stati nazionali contemporanei rappresenti l’evidenza di un declino della sovranità degli stessi; e come esso risponda, più che alle finalità dichiarate di fermare il terrorismo o le migrazioni illegali, alla necessità di teatralizzare la supremazia e l’autonomia statuale erose dall’interconnessione globale dell’economia e della politica. Al contempo, tuttavia, il muro plasma una soggettività «sovrana», con forti tratti nazionalistici e difensivi, e connotazioni di genere e sessuali patriarcali. Non è un caso che l’ideologia sovranista della difesa dei confini guadagni in enfasi e popolarità in parallelo con il backlash che è in atto in molti paesi occidentali contro i diritti delle donne. Confini rigidi alimentano l’illusione di uno stato “immunizzato” verso l’esterno, ma proiettano anche al suo interno il simulacro di un ordine gerarchico che riporta il soggetto maschio, bianco, eterosessuale in una posizione di supremazia.

È così che le donne tornano ad essere “proprietà”, come nei discorsi che affermano la necessità di proteggere le “nostre donne” dal pericolo rappresentato dall’avanzata dello straniero. Ma anche nelle rappresentazioni che fanno della donna straniera, nelle società occidentali, una semplice propaggine della propria cultura: una figura minacciosa quando portatrice di un’alterità inassimilabile; oppure una vittima, quando ritenuta incapace di qualsiasi agire autonomo. La dicotomia di vittima e soggetto pericoloso dà forma a tutto il discorso sulle migrazioni femminili, in particolare sulle migrazioni forzate. La condizione di “alterità” della donna senza-stato è dunque duplice. È “altro” in quanto donna: come si legge nelle pagine più celebri di Simone de Beauvoir, «la donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro». Ma è “altro” anche in quanto appartenente alla categoria del migrante, dello straniero.

Al contempo, è senza-stato in un duplice senso: lo stato di cui è cittadina o in cui aveva la sua residenza abituale le ha negato protezione, spesso proprio in quanto donna, contro la violazione di fondamentali diritti; quello in cui approda condiziona il riconoscimento di un diritto al soggiorno e all’accoglienza all’esercizio del potere sovrano di controllare i confini per difendere la collettività statuale dall’ingresso di stranieri. Lunga e tutt’altro che lineare è la strada verso la piena appartenenza a un paese straniero per la donna senza-stato. La quale resta dunque a lungo, anche quando ammessa entro i confini, senza “un posto nel mondo”.


Questo testo è tratto da libro Donne senza Stato. La figura della rifugiata tra politica e diritto, pubblicato da Futura/Ediesse

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