Seduta sul bordo del letto, al buio, con il bicchiere in mano, Marisa guarda i palazzi della parte opposta della strada, ombre più scure nella notte. Qualche finestra è illuminata – piccole luci sparse. L’acqua odora di ruggine, il bordo del bicchiere è scheggiato in un punto.

«Tieni», le ha detto Luca, «bevi», il peso del suo corpo mentre prendeva posto accanto a lei, il lieve cigolio della struttura in legno. Reggeva il bicchiere con la sua mano grande. Dev’essere accaduto il giorno prima, dopo cena, mentre Marisa giaceva rannicchiata sotto il piumone azzurro.

«È che voglio vederla, solo questo», ha detto lei, le palpebre serrate.

«Lo so».

«Anche soltanto un attimo».

Pioveva, riusciva a sentirlo da quel suo nascondiglio. Il canto di un uccello, forse tra gli alberi scheletrici che cintano l’area giochi per bambini, un rapido frullare d’ali.

«Non hai mangiato niente. Bevi un po’ d’acqua, almeno».

«Non mi va».

«Ok. Lo metto qui, per dopo».

Ha appoggiato il bicchiere sul comodino – il suo sporgersi appena e il braccio teso, un altro cigolio – poi le ha passato le dita fra i capelli. Lei si è scostata e lui le ha chiesto scusa. «Scusa».

«No, scusami tu».

«Non c’è problema».

Silenzio, oltre la pioggia. Il raro passaggio di un’automobile sull’asfalto bagnato. Il pianto di un bambino. Un uomo, dentro le cavità del loro palazzo, ha sbattuto una porta, gridando: «Basta!».

Basta, basta, basta.

«La gente sta perdendo la ragione», ha detto lui.

Marisa ha strofinato i piedi l’uno contro l’altro, dentro i calzini neri – non le importava della gente, in quel momento – poi è passata un’ambulanza. Che suono orribile, ha pensato, ti prego falla smettere.

«Ti chiameranno presto», ha detto lui. «Vedrai».

«Non è la stessa cosa».

«Scusa, non ti ho sentito».

«Non è la stessa cosa, ho detto».

Nessuna alternativa

Le palpebre dolevano. Ha stretto le ginocchia al petto, nei pantaloni della tuta, la lana ruvida del maglione sulla sua pelle nuda.

«Vado di là», ha detto lui. Pareva dispiaciuto, o imbarazzato. Sta lavorando a una ricerca econometrica, numeri e statistiche, di cui lei sa pochissimo, che non riesce a capire. «È che la devo consegnare».

«Ok».

«Ma basta che mi chiami, se hai bisogno».

Ha liberato la struttura dal proprio peso – la sensazione di uno slancio, il letto come un mondo liquido, una corda tagliata e il corpo di Marisa che riemergeva – ha raggiunto la porta e si fermato. La stava guardando? Guardava la sua sagoma sotto il piumone, i capelli arruffati sul cuscino, ciò che restava di sua moglie?

«Vorrei poter fare qualcosa», ha detto.

«Ma non puoi»

Dev’essere caduta poco dopo in un sonno pesante, perché non si trovava più in camera da letto. Un fiume in piena dopo una lunga pioggia. La luce in superficie, irraggiungibile, colore dell’asfalto, e il fondo melmoso, e là, sul fondo, ha visto sua madre, ancora giovane, la gonna gonfia come una campana intorno alle cosce e la raggiera dei capelli – alghe vibranti – distante solo qualche metro, sicura e solida anche nella corrente, il viso come un ciottolo e un braccio che fluttuava in segno di saluto.

L’ha vista schiudere le labbra per dire qualcosa.

Vieni qui, gioia.

Marisa non era in grado di raggiungerla. Sbatteva i piedi, fendeva inutilmente l’acqua scura.

L’hanno portata via nel primo pomeriggio.

«Non riesce a respirare bene», le ha detto l’infermiera, la voce sottilissima al telefono, lontana. «E le è salita la febbre».

«Com’è possibile?»

È un mese e mezzo che nessun parente può fare visita agli anziani, che la casa di riposo è impenetrabile, blindata, che Marisa non vede sua madre.

«Signora, non lo so».

«E dove la portano?»

Ma che domanda idiota. Ovvio: in ospedale. La voce sottilissima si è spenta per un attimo, poi lei l’ha sentita mormorare esasperata a qualcun altro: «Arrivo», mentre le ruote di un carrello cigolavano. Le è parso di sentire l’eco di un applauso: doveva provenire dalla televisione, lasciata sempre accesa nella sala comune.

«Non potevamo fare altro, a questo punto».

«Le faccio sapere»

L’infermiera è una donna robusta, dai capelli giallo arancio, un crocefisso più piccolo di un’unghia intorno al collo e la targhetta con il nome – Alexandra – appuntata sul taschino del camice bianco. Chiama sua madre “la bella bambina”. Col cellulare premuto sull’orecchio, nell’ingresso in penombra, la mente di Marisa è stata attraversata da un ricordo: la vampa dei capelli giallo arancio nel vano della porta, in un giorno di sole; l’odore dell’urina e di disinfettante; le grida di una donna; la tv accesa; lo sguardo di sua madre, sino ad allora vacuo, come sempre, e gli occhi che guizzavano alla parola “bella”.

«Posso andare a trovarla, almeno?», ha chiesto all’infermiera.

«Purtroppo no, non può».

«E cosa dovrei fare?».

«Provi a telefonare, per avere notizie».

Ora era brusca, sbrigativa. Un altro applauso, e una risata.

«Ma non potete spegnere quella televisione?»

«Come, scusi?»

«No, niente».

È entrata in cucina, si è seduta al tavolo, davanti al cielo cupo sui tetti dei palazzi. La buccia di una mela in un piattino da caffè. Mascherine usate e nuove sul piano di lavoro.

«Senta», ha detto l’infermiera.

«Sì, sono qui».

«Provo a chiamare anch’io, d’accordo? E le faccio sapere».

«Grazie».

Prima di riattaccare, Marisa gliel’ha domandato: «Le ha detto qualcosa?»

«Chi?»

«Mia madre». Poi, dopo un istante di silenzio: «Le ha chiesto di me?»

Tampone positivo

La casa di riposo è in cima a una collina, a una ventina di chilometri da lì, un edificio anni Settanta. C’è un tavolino in plastica accanto alla porta d’ingresso, al quale siede sempre un uomo in carrozzella. Vasi di fiori finti. La stanza di sua madre, al terzo piano – per i non autosufficienti – si affaccia su ciuffi di boscaglia. Il letto adesso è vuoto.

Marisa si è sporta sopra il tavolo, in attesa, verso la buccia della mela che stava avvizzendo, sperando in una risposta come: Certo, mi ha detto di salutarla tanto e di non preoccuparsi. E che le vuole bene.

La voce di Alexandra si è assottigliata ancora: c’era qualcosa, questa volta, che pareva sfibrato, sul punto di arrendersi.

«Sono tempi terribili, signora».

«Già».

Ha un figlio piccolo, Alexandra. «Lo vedo troppo poco», le ha confessato un giorno, mostrandole una fotografia, poi ha accarezzato la guancia di sua madre. «Ma qui ne ho un’altra, vero? Ne ho tanti, tanti altri. La mia bella bambina».

Una ragazza, nel palazzo di fronte, ha spalancato una finestra e si è messa a ballare, la musica in un paio di grandi cuffie, le braccia aggrovigliate, nervose, verso l’alto. Scuoteva la testa, come dicesse: no.

«Signora, adesso devo andare, arrivederci».

«Arrivederci», ha detto lei.

Aveva ancora il cellulare premuto sull’orecchio, quando suo marito è uscito dallo studio, sgusciato fuori da numeri e statistiche, una figura in corridoio.

«Tesoro, dove sei?»

Si stava preparando un temporale.

Ricorda quella ragazza, prima di tutto questo – un pomeriggio primaverile – con indosso una maglietta, pantaloncini sfilacciati e sneakers bianco avorio, sul ciglio della strada, le grandi cuffie nere, immersa nella musica. Marisa aveva appena parcheggiato, stava per scaricare le buste della spesa e la ventiquattrore coi compiti in classe da correggere. Il cielo come un telone azzurro, una pittura asciutta. Ha visto un ragazzo sbucare alle sue spalle, canotta e jeans strappati e scarpe da ginnastica, tatuaggi sullo sterno, chinarsi e poi baciarle il collo, e la ragazza, colta di sorpresa, a bagno in quelle profondità sonore, che si voltava e gli colpiva un braccio, puro istinto, lui che fingeva gli avesse fatto male, la voce offesa, fintamente dolorante: «Oh, ma che, sei matta?», poi le cingeva i fianchi e l’attirava a sé, e si erano baciati.

Marisa aveva sorriso, col finestrino aperto, l’odore della plastica che proveniva dai sacchetti, odore di asfalto e terra secca. Li aveva visti allontanarsi – erano così giovani – appena barcollanti ma aggraziati com’è la giovinezza, coi fiati che si mescolavano.

Seduta al tavolo, in cucina – «Sono qui» – ha immaginato tutta la nostalgia, tutta la solitudine di quelle braccia protese verso l’alto, in quello scuotere la testa.

Senza di te non posso stare.

«Che c’è?», le ha chiesto suo marito, ora più nitido, un passo oltre la soglia. «Cos’è successo?».

È stato allora che ha cominciato a piovere.

Una telefonata e poi un’altra: un labirinto. Tampone positivo, purtroppo. «Richiami più tardi, le faremo sapere», «sono tutti occupati, adesso», «chi è che sta cercando?», poi un telefono che non faceva che squillare. Una voce maschile, a un certo punto: «Non è il numero giusto».

«Ma l’ho già fatto prima».

«Non so che dirle».

Nessuna notizia da Alexandra: «Non ancora». Il suo turno è finito, le ha detto, deve tornare a casa dal figlio, con quel suo crocefisso e la vampa dei capelli. «Riproverò domani mattina, presto, appena arrivo, glielo prometto. Stia tranquilla», e Luca che nel frattempo preparava cena, voltandosi a guardarla.

«Niente?».

«No, niente».

Le ha posato davanti un piatto pieno di qualcosa – cosa? – le ha detto dolcemente di mangiare.

«Non ho fame».

«Ok».

«È che non capisco come sia stato possibile. Come sia entrato là».

Un fiume in secca

Nella cucina è calato il silenzio, soltanto lo scrosciare della pioggia, il loro riflesso sul vetro chiazzato. Poi Luca ha detto, sottovoce, dopo un lungo respiro: «Ascoltami», e le ha preso la mano con la mano grande e calda che aveva appena digitato numeri e statistiche, le ha strofinato il pollice contro il palmo. «Ascolta. Lei non lo sa, non se ne rende conto». Sono parole che le ripete spesso, ultimamente: non è più vita, quella, quel corpo consumato, rinsecchito, la bocca spalancata, neppure una parola.

«Cosa vorrebbe dire?»

«Non si ricorda più chi sei».

Non penserà che tu l’abbia abbandonata, ecco cosa intendeva, perché non pensa a niente. Non fisserà la porta della stanza, ovunque sia, sperando di vederti comparire. Ormai è un fiume in secca, una strada deserta e dissestata. Allora Marisa gli ha detto dei suoi occhi al suono della voce di Alexandra, alla parola “bella”.

«Sì, me l’hai già raccontato».

«Come si fosse risvegliata per un attimo».

«Sono reazioni a certi stimoli, Marisa. A luci, a rumori. Tipo la fame o il freddo».

«È pur sempre qualcosa, no? No?»

Dev’esserci qualcosa che rimane, anche nei punti irraggiungibili, più oscuri, un nocciolo talmente piccolo da sfuggire alla presa. Anche in tempi terribili come quello.

Luca ha sorriso appena: non voleva ferirla.

La baia

Ciò che ricorda adesso, seduta sul bordo del letto mentre lui sta dormendo: lei che diceva: «Tu non capisci, è che mi sento in colpa. Per averla lasciata lì e tutto il resto. Che ne sarà di lei, che le succederà, così, da sola?», pestava i piedi contro il pavimento – una bambina – le sillabe slegate, i denti che cozzavano, lui che si è alzato e l’ha abbracciata, lei che gli ha detto: «Lasciami», divincolandosi, è corsa in camera e si è infilata sotto il piumone azzurro.

Quand’erano giovani, avevano viaggiato a lungo in autostop, con tenda e sacco a pelo. Il sud del Portogallo – luce abbagliante e stormi di surfisti. Minuscoli paesi di Provenza. La quiete ombrosa della Foresta Nera. E l’isola di Mainland, nelle Orcadi, con grappoli di pecore su una spiaggia sassosa, le lingue delle bestie che leccavano i ciottoli.

«Oh, guarda, Luca, guarda!»

Erano in cima a una collinetta, una cupola d’erba di un verde commovente, e lei le aveva indicate.

«È per i sali minerali. Lo fanno per quello».

«Oh, ma quanto sei noioso. È bello e basta».

Appena fuori Stromness, durante un temporale, per trovare riparo avevano raggiunto la porta di una casa, ridendo come matti: il proprietario, un uomo anziano, aveva offerto loro un tè.

«This is a wonderful place», gli aveva detto Luca.

Lo scorcio della baia battuta dal vento, onde e spuma, nella cornice di una finestrella, come un incendio d’acqua.

«I was born here». La voce dell’uomo pareva il ruzzolare di una pietra lungo una scarpata.

«Well, you’re very lucky».

«Guess so. But look at you: you have your whole life ahead of you».

Il vecchio aveva letto loro due poesie di Yeats: All changed, changed utterly, diceva la prima a un certo punto, a terrible beauty is born. Le tazze che fumavano sul tavolo, le loro giacche, gli zaini e gli scarponi a un metro dalla stufa sfrigolante. La foto di una donna in abito da sposa, sopra una mensola che il peso di decine di libri aveva imbarcato. Le dita di Marisa avevano raggiunto lentamente la mano grande e calda di Luca, le labbra che scandivano, in silenzio: «Ti amo».

Now and in time to be.

Ci sono luci che si spengono e luci che si accendono: altre persone non riescono a dormire – insonnia, preoccupazioni, sogni inquieti. Qualcuno si tasta la fronte, qualcuno sta tossendo e ne ha paura, qualcuno pensa a qualcun altro. La brace di una sigaretta su un balcone. Un punto luminoso, un cellulare, dentro la stanza della ragazza che ballava.

Mi manchi.

Anche tu.

Sua madre la chiamava “gioia” o “il mio tesoro”; l’aveva scarrozzata per anni da una palestra all’altra – tornei di pallavolo – senza mai lamentarsi; girava per casa in bigodini, a piedi nudi, sempre canticchiando; avevano dormito insieme per settimane intere, dopo la morte di suo padre. Adesso fluttua nella corrente, gli occhi puntati su di lei. Sorride, come se le dicesse: «Vieni, vieni anche tu, chiunque tu sia», ma lei non può seguirla.

Così, con il bicchiere in mano, Marisa trattiene il respiro. È l’unica cosa che possa fare: passare da una stanza all’altra, stanze invisibili via via sempre più strette, fino a raggiungere quel punto di silenzio al centro del suo corpo, di tutti i corpi, dove ogni cosa è immobile e lontana – neppure più un ricordo, niente – finché non prende ad annaspare. Deve tornare a galla, percorrendo il cammino a ritroso. Beve sorsate d’aria a bocca aperta, il petto è come un mantice, e allora suo marito si sveglia e mormora confuso: «Che ti prende? Cosa fai?», ma forse lo capisce perché scosta il piumone, le scivola alle spalle, la stringe a sé.

«Amore mio», le dice. «Smettila».

«Voglio che sappia che ci sono». Marisa adesso sta piangendo.

«Hai ragione. Lo vorrei anch’io».

«Che non è da sola, là. Ci siamo tutt’e due».

Le nuvole si schiudono, lei posa il bicchiere, si asciuga le lacrime.

È un viaggio in mare aperto, quella notte di aprile, un mare sconosciuto, senza una bussola, nella barchetta del loro appartamento. Ma – guarda, le viene da pensare – ce ne sono tante.

«Te lo ricordi Keats?», gli chiede allora, di colpo.

Silenzio, poi Luca dice: «Sì. Sì, certo, è passato un secolo», e per un attimo sono di nuovo a Stromness, davanti alla finestrella che inquadrava la baia in un tumulto di onde e spuma, e quell’incendio d’acqua è pura meraviglia, non fa alcuna paura. Il vecchio sta dicendo loro che hanno tutta la vita davanti; aggiunge che la vita è una grande fortuna, fino all’ultimo, poi, sospirando, indica la foto della moglie: «I’m still in love with her, after all these years. You know, such a thing never ends». L’abito da sposa è vaporoso, appena sbiadito dal tempo. Loro annuiscono. Lui sfoglia le pagine del libro – è stato un regalo di lei, dice, è una delle cose che ha più care – ed eccolo che legge un’altra poesia, altri versi. For ever warm and still to be enjoy’d, for ever panting, and for ever young. Marisa lo ringrazia – in italiano: «Grazie» – poi tutti loro si chinano sulle tazze fumanti e se le portano alle labbra, al sicuro e al caldo, mentre là fuori diluvia, mentre la baia brucia.

© Riproduzione riservata