L’anno scorso in Italia 1.200 morti sul lavoro, più di tre al giorno. Quest’anno non va meglio, e poi ci sono gli incentivi del governo all’edilizia, l’ecobonus per ristrutturare le case: altro che salvaguardia dei lavoratori, c’è il prossimo cantiere da mettere su in fretta. Di conseguenza, in questi mesi ho moltiplicato le ispezioni.

Sono un sindacalista, vado nei cantieri e nelle fabbriche per verificare che i criteri di sicurezza siano rispettati, in base al decreto 81/08, il “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”. Corro dappertutto a fare sopralluoghi; ormai in ufficio ci passo solo a timbrare il cartellino. Devono averlo capito anche i personaggi dei romanzi; parlo proprio dei frutti della fantasia di scrittori e scrittrici.

Queste creature immaginarie mi contattano per denunciare le condizioni in cui i romanzieri di oggi le costringono a lavorare: ruoli troppo caricaturali da impersonare; paragrafi fatiscenti, crolli di sintassi; aggettivi tossici, adulterati; trame narrative senza capo né coda, che farebbero uscire pazzo il più volonteroso dei protagonisti letterari.

Ho messo un cartello sulla porta dell’ufficio: “NON HO TEMPO”; stessa cosa nella risposta automatica che ho impostato per le mail: «Troppo lavoro, non posso leggervi».

Mi dispiace, anche perché non è che le loro sofferenze siano meno profonde delle nostre. E però ultimamente preferisco dedicarmi alle persone in carne e ossa; vorrei aiutarli tutti, i venditori di accendini per la strada, i ragazzi che chiedono l’elemosina sui marciapiedi, con un cane pulcioso accoccolato sulle cosce; li vedo e penso che potrebbero essere figli miei, mi viene un groppo in gola.

Indesiderati e pericolosi

Ce n’è uno, sulla strada sotto il mio ufficio, che è venuto a stare qui da un po’. Ha passato l’inverno coperto solo da una giacchetta e un paio di braghe di tela di sacco; i piedi nudi, con dei ponfi bluastri e viola sulle dita; ha i geloni. Alle caviglie e ai polsi porta dei bracciali massicci di ferro, quand’era più giovane dev’essere stato un punk; lo dicono anche i tatuaggi sul collo. Il cranio è nudo, crudo, pieno di croste, come se glielo avessero scorticato con un rasoio arrugginito. Avrà sui trentacinque, quarant’anni.

All’inizio, ogni volta che passavo, tendeva la mano verso di me: «L’anniversario… l’anniversario…», diceva. Poverino. Tiravo dritto, sentendomi in colpa; tuttalpiù una moneta, di corsa, e lui: «Ma no… l’anniversario!». Poi, con l’anno nuovo ha smesso con quel ritornello. Mi guarda da sotto in su, con la sua testa martoriata, chiazzata di piaghe.

Questa settimana ha ricominciato a chiamarmi. Mormora qualcosa; io allargo le braccia; lui insiste. Mi allontano, non lo sento. Finché l’altro giorno me lo ha proprio gridato: «Noi russi… cancellati!».

Mi sono fermato di colpo. «Voi…?».

«Russi, sì… noi. I nostri artisti, indesiderati in Italia… perfino gli oppositori del regime che in Russia sono stati sbattuti in carcere da Putin, qui da voi si vedono annullare le mostre…».

«Che cosa dici?».

«Gli appelli per chiudere i padiglioni delle biennali d’arte… i classici della letteratura che improvvisamente diventano pericolosi… Le conferenze su di loro, soppresse… Non hai visto?».

«Eh, non ho visto no: sono sommerso dal lavoro! Anche adesso, devo correre, perdonami», gli ho detto scappando via.

Ma poi ho letto, mi sono informato. Non credevo ai miei occhi. Era proprio come diceva lui.

Sono tornato il giorno dopo. «Ho visto», gli ho detto».

«E cosa hai deciso?».

«Io?».

«Non hai sentito che cosa ha detto il tuo collega?».

«Chi?».

«Paolo Nori».

«Collega?», gli ho chiesto.

«Certo! Sindacalista dei personaggi anche lui. Gli hanno sospeso il corso che doveva fare all’università Bicocca su Dostoevskij, a Milano, perché parlare di un autore russo, con l’invasione dell’Ucraina in corso, avrebbe potuto “creare polemiche in un momento di forte tensione”. Testuale».

«E lui che cos’ha detto?».

«Che semmai bisognerebbe parlarne di più, di Dostoevskij, in questi giorni».

«Mai io che c’entro? Cosa vuoi che faccia?».

«Potresti ascoltarmi, finalmente».

«Come ti chiami?».

«Rodion».

«Facciamo domani, Rodion. Ti prometto. Oggi ho troppe ispezioni».

Dostoevskij ha barato

La mattina dopo, mi alzo prima del solito. Metto nello zainetto i libri di Dostoevskij che ho in casa, un plaid e un thermos pieno di caffè caldo. Si sta facendo giorno. La strada sotto il mio ufficio è vuota, non c’è nessuno, a parte Rodion, che è seduto al suo solito posto, sul marciapiede.

Svito il tappo del thermos, si spande il profumo del caffè, glielo offro. «Ti ho portato anche una coperta», gli dico.

«Lascia stare, grazie. Il nostro non è un disagio fisico».

«No?».

«Stiamo male per come ci trattano i nostri autori».

«Vuoi dirmi che…».

«Sì. Sono uno dei suoi personaggi».

«Di Dostoevskij?». Mi metto a rimuginare: «Rodion… Rodion…», ripeto. Non mi viene in mente niente.

«Rodion Romanovič Raskol’nikov!», sbotta lui.

Lo guardo meglio, con emozione: «Non erano bracciali punk», dico indicando le manette ai polsi e alle caviglie. «Hai ancora i ferri da condannato. E l’uniforme dei lavori forzati».

«Oh, queste?», dice guardandosi manette e maniche di sacco. «È come mi hai immaginato tu, come mi ricordi dalla tua ultima lettura…».

«Perché sei venuto da me? Perché mi chiamavi?».

«Perché l’anno scorso era l’anniversario di Dostoevskij, e volevo approfittarne per farti riaprire il mio caso».

«Hai delle rimostranze? Non ti meritavi la Siberia?», gli chiedo. «Pensi che la condanna sia stata troppo dura?».

«Ma no, il tribunale ha tenuto conto delle attenuanti». Fa un’alzata di spalle: «E poi, la mia pena ormai l’ho scontata».

«D’altronde, la vecchia usuraia l’hai uccisa», dico sedendomi per terra accanto a lui, sul marciapiede.

«Sì che l’ho uccisa. Ma come ha voluto lui. Non come avrei voluto io».

«Lui chi?».

«Fëdor Michajlovič Dostoevskij! Ha barato, mi ha fatto fare cose abominevoli perché aveva paura del mio movente, ne era affascinato anche lui».

«Me li ricordo, i tuoi discorsi. Che ti sentivi in diritto di compiere un crimine per migliorare il mondo…».

«Io ero uno studente povero, un giovane intellettuale. Scrivevo articoli gratis, non mi pagavano. Volevo fondare una rivista, ma non avevo un soldo. E invece quella, Alëna Ivanovna, la vecchia usuraia… Una parassita, un pidocchio, uno scarafaggio che alla società non dava nulla… Anzi, faceva del male».

«Ma questo non ti autorizzava a…».

«Sì, invece! Tutti i grandi uomini, tutti i benefattori dell’umanità hanno cominciato con un crimine. Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone: tutti, dal primo all’ultimo, sono stati delinquenti. E spesso, per introdurre nuove leggi e istituzioni più civili, si sono seduti su cataste di morti! Se vuoi cambiare la società, devi essere un sanguinario».

Massacrare o strozzare

Sentiamo crescere un fracasso, un camion della spazzatura si avvicina lento, scende un netturbino a svuotare un bidone di bottiglie. Io intanto frugo nello zainetto, tiro fuori la mia copia di Delitto e castigo, tutta piena di post it. Mi districo fra i segnalibri, gli mostro i passi che ho sottolineato. Mi metto a leggere, cito: «“Cento, mille buone azioni e imprese, che si possono organizzare e aggiustare con i soldi della vecchia, destinati al monastero! Centinaia, forse migliaia di esistenze indirizzate sulla giusta strada; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla degradazione, dalla rovina, dal vizio, dagli ospedali per le malattie veneree: e tutto questo con i suoi soldi. Uccidila e prendi i suoi soldi per consacrarti poi con il loro aiuto al servizio di tutta l’umanità e della causa comune; che ne pensi: un unico, minuscolo delitto non sarà forse espiato da migliaia di buone azioni?”».

Mi fermo, lo guardo negli occhi. Poi mi rimetto a cercare fra i segnalibri: «Mi ricordo un altro passo, dove…».

«Ma non ti ricordi tutti i torti che ho subìto da lui!», mi interrompe.

«Dimmeli».

«Cominciamo dalla fine, una vera beffa: i soldi che mi servivano sarebbero saltati fuori lo stesso, senza bisogno di uccidere nessuno. Insomma, se fossi rimasto un ragazzo perbene, c’era un lieto fine pronto per me. Dimmi tu se questo non è un colpo basso della trama!».

«E poi?».

«Che bisogno c’era di farmi uccidere anche la sorella della vecchia usuraia, la mite Lizaveta? Che per di più aveva un lieve ritardo mentale, e quindi era doppiamente innocente».

«Be’, Dostoevskij è un romanziere, racconta proprio la sproporzione fra i progetti e la realtà, fra la teoria e la vita».

«Non aveva argomenti contro la mia teoria, e le obiezioni me le ha fatte con le sue fantasie!».

«Lizaveta è rientrata in casa troppo presto, appena dopo che avevi fatto fuori la vecchia, e ti ha sorpreso lì davanti al cadavere».

«Così ho dovuto prenderla a colpi di scure in faccia. In faccia, ti rendi conto? E poi… la scure! Vogliamo parlarne?».

«Parliamone…», gli dico io, costernato.

«Mi ha fatto spaccare crani, spargere secchiate di sangue. Ma io non volevo…».

«Non volevi uccidere?».

«Uccidere, sì; ma non così!».

«Il sangue, però, l’avevi teorizzato tu…».

«C’erano mille altri modi. Dammi qua». Mi strappa Delitto e castigo dalle mani, lo sfoglia con rabbia, trova una pagina, mi mostra una parola: «Carta canta!», dice. «“Strozzata”, c’è scritto. A Sonja confesso il mio assassinio, ma dico che la vecchia l’ho strozzata, non che l’ho fatta a pezzi».

«Eh be’, certo», obietto, «perché non te la sentivi di confessarle un gesto così orribile; allora hai ammorbidito un po’ le cose…».

«No! Quella parola è un indizio. È il segno che Dostoevskij ha la coscienza sporca, e sa di avere barato con me: invece di una corda o un laccio mi ha messo in mano una scure, per distruggere la mia teoria del crimine commesso per nobili scopi! Lo sapeva benissimo che sarebbe bastato farmela strangolare, la vecchia, senza tutta quella carneficina. E invece ha rincarato la dose per rendere il mio delitto inaccettabile, e di riflesso ha reso più ripugnante anche il movente. Ma cosa sarebbe successo se avessi commesso un assassinio pulito, incruento? E se ne avessi ricavato i soldi che mi servivano per i miei scopi benèfici? La mia teoria non avrebbe vacillato. Io le mie ragioni le avevo, non sono un mostro».

«Ma infatti. Noi ti vogliamo bene. E siamo stati maltrattati come te, perché leggendo stiamo dalla tua parte, e questo è tremendo. Per tutto il romanzo siamo lì che speriamo che tu non venga scoperto, che non ti condannino! Dostoevskij ci mette sotto stress come lettori, ci tortura conficcandoci in questa contraddizione etica: sappiamo che sei tu il massacratore della vecchia, sappiamo che hai abbattuto la scure sul viso della povera Lizaveta, eppure ci auguriamo fino alla fine che tu la passi liscia e che sposi la tua Sonja… Assaggia il mio caffè, dài. È caldo».

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