Cos’è un uomo, cos’è una donna? Quale rapporto c’è tra la biologia dei sessi, i comportamenti che uomini e donne assumono, e le idee che circondano i modelli “appropriati” di maschilità e femminilità?

I dibattiti attuali intorno il rapporto tra il “sesso” e il “genere” non sono una materia puramente accademica, ma toccano importanti questioni politiche. In Europa, per esempio, sull’opposizione alla nozione di “genere” si gioca il destino della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. In Italia, se ne dibatte a proposito della legge Zan contro l’omofobia e la transfobia.

Il ruolo della biologia

Chi lotta per l’uguaglianza di genere e l’allargamento dei diritti sessuali parte dall’assunto che non è la biologia a decidere ciò che possiamo essere, ma l’insieme di attributi, caratteristiche, comportamenti che sono associati nelle diverse società all’essere uomo e donna. Per l’opinione pubblica conservatrice, invece, non è affatto ovvio distinguere queste due dimensioni. Lo slogan secondo cui «i maschi sono maschi, le femmine sono femmine», in uso nei movimenti anti-gender, non significa solo che non si può transitare da un genere all’altro, ma anche che nascere con certi caratteri sessuali determina il nostro ruolo nel mondo.

Eppure da quasi un secolo, dai primi lavori dell’antropologa Margaret Mead, sappiamo che le culture organizzano i rapporti tra i generi in una grande varietà di modi diversi. Anche oggi, di fronte all’impasse di alcuni dibattiti sul rapporto tra natura e cultura, può essere necessario spostare lo sguardo, portarlo più lontano, lasciarsi spaesare dall’incontro con l’alterità.

L’esperienza dello spaesamento è al centro del brillante saggio di Ricardo Coler, Il regno delle donne, riproposto da Nottetempo in edizione ampliata a quindici anni dalla prima pubblicazione.

L’autore, medico e reporter argentino, racconta il suo viaggio sulle tracce dell’«ultimo matriarcato», la civiltà Mosuo nella regione cinese dello Yunnan: una comunità in cui «le donne sono palesemente al potere», e «un esempio di come può essere la realtà senza la presunta supremazia dell’uomo e senza l’oppressione che questa supremazia può esercitare».

In modo simile alle altre (pochissime) società matrilineari ancora esistenti, presso i Mosuo le donne danno il nome ai figli – che restano presso la famiglia della madre –, gestiscono il patrimonio, amministrano l’economia. L’osservatore occidentale desideroso di apprendere il funzionamento di questa società dovrà quindi, innanzitutto, togliersi le lenti con cui ha imparato a leggere le relazioni tra i generi.

L’ordine naturale delle cose

«Conoscere i loro costumi ha messo sotto scacco quello che fino ad allora era stato per me l’ordine naturale delle cose», scrive Coler. «Si pensa che generalmente sia l’uomo a sottomettere la donna? Non da queste parti. Che sia proprio della condizione femminile volersi sposare? Niente affatto. Che il padre debba essere rispettato? Quale padre?». Già, tra i Mosuo non solo le donne presiedono al funzionamento della famiglia e della società, ma non esiste il matrimonio e il ruolo del padre è sconosciuto. La vita sessuale e i rapporti amorosi non modificano la struttura familiare, che resta ordinata secondo i rapporti di filiazione materna.

Un vero incubo per i paladini odierni della famiglia eterosessuale fondata sul matrimonio. Non, però, per gli uomini Mosuo, che vivono pacificamente all’ombra del potere femminile. Anzi, la matriarca Tsunami Ana racconta all’autore che, quando i figli provano a mancarle di rispetto, li minaccia con il matrimonio, cioè con la prospettiva di andare altrove, sposarsi con un’estranea, assumersi delle responsabilità. La cosa, a quanto pare, non li attrae affatto.

Strutturazioni diverse

Chi pensa che l’assenza di padri e mariti sia generatrice di disordine sociale sarà costretto a ricredersi. «L’esperienza Mosuo sta a indicare che altre possibili forme di strutturazione della società non comportano la sua fine, l’assenza della legge o la disintegrazione di quella che all’interno di tale società è considerata una famiglia. Anzi, nel matriarcato l’istituzione famigliare appare più solida e vitale di quanto lo sia in occidente».

Ne esce sottosopra anche il luogo comune che immagina il matriarcato come l’opposto speculare della società dominata dagli uomini, con le donne che detengono il monopolio della violenza ed esercitano il comando da una posizione superiore e distante. In realtà, i compiti svolti dalle donne includono la cura della casa e dei figli, oltre al lavoro nei campi, al commercio e a ogni altra attività.

Ciò che conta è che, lavorando con gli altri, esercitando insieme il comando e la cura, le matriarche ricevono il massimo rispetto. Quanto alla violenza, è bandita dalla società Mosuo, genera riprovazione, risulta intollerabile. «Il termine esatto è imbarazzante».

Andare alla scoperta del «regno delle donne» non significa fantasticare di una società ideale, ma capire che il potere può essere disgiunto dalla violenza, che il lavoro duro può portare alle donne distinzione e rispetto, che i figli possono non avere un padre riconosciuto ma non per questo crescere privi della funzione della legge.

Serve, questo libro, a capire che nessun destino sociale è iscritto nella biologia dei corpi. E che altri mondi sono possibili.

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