Nel 2015, Patrick C. Goujon ha 48 anni ed è professore al Centre Sèvres, l’università dei Gesuiti a Parigi, dove tutt’ora insegna storia della spiritualità. Il suo lavoro gli piace e sente di essere soddisfatto della sua vita di sacerdote. Ci sono solo dei dolori fastidiosi, persistenti fin dall'infanzia, di cui i medici non sono mai riusciti a trovare le cause. Fino a una sera d’autunno, in cui emerge la consapevolezza che da bambino è stato abusato sessualmente da un prete. Per anni la sua memoria sembra non aver conservato traccia di ciò che gli è successo, come se fosse stato tutto cancellato. «Dovevo mantenere un ingombrante segreto che avevo custodito, rinchiuso nelle vertebre, come un grido soffocato ancor prima di poter essere espulso». Ma il corpo è testardo. Nasce così il potente e delicato memoir In memoria di me, in libreria per EDB, in cui Patrick C. Goujon ricostruisce la sua vicenda giudiziaria e riflette sul senso del credere alla luce di quanto è accaduto.

«Non avrei mai immaginato fino a che punto gli abusi sessuali contro un bambino potessero distruggere la sua vita adulta. A scioccarmi era lo scandalo di questi crimini, soprattutto quando perpetrati da uomini di chiesa. Mi limitavo a questo, finché un giorno mi tornò in mente all’improvviso ciò che avevo subito da bambino, per mano di un sacerdote. Ero rimasto chiuso nella negazione per quasi quarant’anni. Dopo aver denunciato, e infine parlato, ho creduto di poter guarire invece la mia vita è andata in pezzi. Fra le macerie della mia storia, tornava a galla una domanda assillante: come avevo potuto scegliere di diventare io stesso un sacerdote?».

È un piccolo libro di 100 pagine di letteratura coraggioso, dalla scrittura bellissima. Sobria, potente, essenziale con cui le Edizioni Dehoniane Bologna (EDB) si rilanciano assieme a Marietti 1820, due marchi storici che trovano una nuova casa a Bologna, Il Portico, nuova realtà editoriale presieduta da Alberto Melloni: 120 novità in libreria per il 2023, tra nuove proposte, riedizioni dai prestigiosi cataloghi e un premio letterario dedicato ai ragazzi.

Beppe Cottafavi


Ho ritrovato la parola, sebbene ignorassi di esserne stato privato. Da bambino ho subìto per diversi anni abusi da parte di un prete. Un giorno mi è stato concesso di dirlo a me stesso, e poi di parlare. Mai avrei pensato che mi avrebbe fatto così bene. Avrei dovuto immaginare che la vergogna era solo un fantasma, che non era niente in confronto alla pace che avrei provato liberandomi dagli impedimenti. Non mi ero reso conto

di aver taciuto. Non ricordo di aver scelto di tacere: semplicemente, la parola non è arrivata. Per molti anni avevo cercato le parole, per istinto di sopravvivenza. Ammiro poeti e musicisti capaci di udire il canto del silenzio. Sono stati loro ad avermi aperto le orecchie. Dovevo sondare il cuore alla ricerca di un dolore che credevo ormai passato. Fortunatamente ho saputo inventarmi una vita, accoglierla grazie a numerosi incontri e meraviglie. Questa vita mi ha salvato. Ho scelto di essere prete cattolico, in seno ai gesuiti. Sono passati quasi venticinque anni da allora. Per anni ho sospettato che qualcosa se ne stesse nascosto da qualche parte. Ma non c’era nientemin vista, niente da dire. Fino al giorno in cui ho cominciato a prendermi cura della mia schiena.

O meglio, altre persone se ne sono prese cura per me e mi hanno invitato a farlo a mia volta,

con dolcezza. Ho iniziato a parlare quando ho smesso di sentire dolore. Dovevo mantenere un ingombrante segreto che avevo custodito, rinchiuso nelle vertebre, come un grido soffocato ancor prima di poter essere espulso. Nell’alleggerire i miei dolori altre persone hanno permesso alla mia parola di prendere forma. E così ha potuto fuggire via dal luogo in cui era rimasta prigioniera. Attraverso massaggi, esercizi e pressioni liberatorie, queste persone avevano trasformato le loro mani in una leva. Ciò che nella mia schiena soffriva è risalito fino alle labbra. La mia parola ha così tolto le radici dai miei muscoli doloranti. Essa mi ha fatto prendere corpo e scegliere la libertà. Tutto questo può quindi essere raccontato. Per lunghi mesi la vergogna di essere stato contaminato mi si attaccò alla pelle. Un prete, per circa tre anni, si era masturbato contro di me. Il senso di colpa non tardò molto ad arrivare. Non ho detto niente, quindi che cosa avevo da nascondere? Ne avevo forse tratto un qualche piacere? Che cosa avevo provato da bambino? Questo pensiero mi perseguitava. Dentro di me, era stato eretto un muro: non avrai accesso a quella scena. Non tornerai a ciò che un tempo ti ha distrutto.

«Eppure lei oggi è un prete. Com’è possibile?», mi aveva chiesto, prendendomi in disparte, l’ispettore di polizia. La risposta era arrivata, diretta: «Io credo in Dio». Mi sorpresi io per primo nel dirlo con una tale evidenza. Il finimondo di questi ultimi anni mi ha poi permesso di ritornare su questa risposta. Perché avevo deciso di essere prete? E oggi dovevo continuare a esserlo? Ero felice nella mia vocazione, ma spinto a pormi questo interrogativo. Volevo appurare la verità in merito alle mie decisioni. Furono dissodamenti profondi.

Non ho idea di che cosa abbia inizialmente risvegliato questo interesse, nel me bambino. Stando a quello che mi è stato riferito, pare io abbia manifestato molto presto l’idea di voler farmi prete. Ne conservo il ricordo: era lì. Ho come l’impressione che questo desiderio mi abbia preceduto. L’ho addomesticato, non senza difficoltà.

Santo senza Dio

In seguito, con il prendere forma delle mie scelte, mi è parso di poter aiutare i miei compagni del liceo, ascoltandoli. Mi stupivo di quanto le cose che mi raccontavano a proposito della loro vita, che per alcuni di loro era già parecchio dolorosa,

risuonassero con certe situazioni che mi capitava di incontrare nelle pagine del vangelo che leggevo allora. Lì, dove tutto sembrava chiuso, non si trovano né miracoli, né moltiplicazione dei pani, ma vie di fuga. Coloro che sprofondavano nella loro colpa o sotto il peso dell’accusa degli altri, questo Gesù di Nazaret li liberava senza costringerli a seguirlo. Libero di fronte all’autorità del suo tempo, denunciava l’ipocrisia religiosa e prendeva la difesa di coloro che vengono obbligati a tacere. Finì per essere condannato a morte ingiustamente. Come avrei potuto non esserne sedotto?i Non ci vedevo certo un Dio, ma un saggio che poteva dirsi santo. Ero poco incline a credere in un Dio onnipotente. Le opere dei programmi liceali non facevano che nutrire la mia sfiducia: la candida ironia del migliore dei mondi possibili così come la saggezza degli stoici rispondevano solo in parte ai miei interrogativi di adolescente.

Camus mi turbava. Mi sembrava che il «santo senza Dio» de La Peste rappresentasse il punto a cui mi conduceva il cristianesimo. Il credo del dottor Rieux risuonava in me. «Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo mi interessa». Avrei potuto fare mia questa confessione. Essere prete mi era sembrata, dopo parecchie esitazioni, la via da intraprendere. Ma nutrivo altri progetti. Mi sarebbe piaciuto diventare un professore in una scuola media o in un liceo. Mi

innamorai. Non riuscivo molto a immaginarmi, nel futuro, costretto a obbedire a un superiore religioso o a un vescovo. Furono anni e anni di oscillazione. Con il diploma in tasca, l’ingresso ai corsi di preparazione mi mise di nuovo davanti le mie aspirazioni principali. Sì, desideravo insegnare, e un lavoro nella ricerca universitaria avrebbe potuto essere un’ipotesi, ma non potevo rinnegare questo primo attaccamento a Dio. Agiva come una forza magnetica che provavo sin dall’infanzia.

Egli ascolta

Mi ero forse, senza saperlo, domandato: «Ma dov’era il tuo Dio quando sei stato aggredito?». A questa domanda non so rispondere. Non ho mai creduto che Dio metta al riparo gli uomini

dalla violenza, e ne ho avuto conferma nella sorte che è toccata al suo Figlio. Ma egli ascolta, ed è questo il suo modo di salvarci. Giobbe supplicava i suoi amici, sempre pronti a catechizzarlo senza mai prestargli ascolto: «Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date». Le consolazioni che cercano unicamente di ragionare sulla sofferenza sono illusorie. Siamo sottoposti alla prova del mancato intervento di Dio. Credo sia la faccia oscura della sua attenzione. Non ho mai detto a me stesso che il malebche avevo subìto non avrebbe dovuto accadere in chiesa. Ho capito, sin dall’adolescenza, che essa non è esente da nessuno dei mali perpetrati dall’umanità. I suoi crimini mettono a nudo l’unica domanda che abbia un qualche valore porsi: come collocarmi, singolo in mezzo a tutti gli altri, di fronte alla violenza che scopro essere all’opera nell’umanità, dentro di me, e, a fortiori, in quelle donne e in quegli uomini che proferiscono un’etica fondata sull’amore del prossimo?

Finché la Chiesa cattolica – per limitare il discorso ad essa – si crederà libera dal male, essa s’incamminerà sulla strada sbagliata. Come credenti, siamo chiamati a riconoscere che il male opera in essa, come in ogni gruppo umano e in ciascuno di noi. È fin troppo chiaro in che modo la coscienza di ciascuno di noi sia divisa. E questa divisione, manifesta nel male scelto deliberatamente, appare già nel momento in cui il nostro giudizio si ripiega nell’ombra e pensa che la sua mancanza di fermezza nello scegliere il bene potrà passare inosservata. La sola speranza è che il male non suggelli la condanna definitiva

dell’intera umanità. È questo, credo, che testimonia Dio nella fede dei cristiani. Egli non ci intrappola in un giudizio di condanna, ma lancia un appello affinché ci allontaniamo da ciò che ci impedisce di vivere. Ci rimette così alla nostra propria responsabilità. «Lascerai che la bestia, accovacciata alla tua porta, domini su di te?», come si sentì domandare Caino prima di uccidere il suo giovane fratello, Abele. La coscienza porta in sé la stessa voce. La pedocriminalità è, in seno alla chiesa, uno scandalo, oltre che un crimine. Colpisce i più piccoli, e alcune persone non riescono mai più a riprendersi. Ogni cosa deve essere messa in campo perché essa cessi di verificarsi. In questo modo, impareremo di nuovo che, in quanto cristiani, condividiamo la sorte dell’umanità dilaniata dalla violenza. Tutti viviamo le stesse lotte e tutti aspiriamo alla pace. Non ho difficoltà a capire che si possa non volere avere nulla a che fare con questo genere di fede. Tutto sembra smentire una simile promessa. Ma non ho potuto rinunciare a questa speranza, perché l’ho già vista brillare. Chiedo soltanto di non dimenticare quanto siano prossimi ombra e luce.


Questo testo è tratto da In memoria di me. Sopravvivere a un abuso, pubblicato da EDB

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