«Trovo molto grave il fatto che siano scomparsi il rispetto e la commemorazione degli antenati, e dei morti in genere, così come era profondamente inscritta nella tradizione della nostra civiltà. Per quanto mi riguarda, io continuo a contare mentalmente sulle persone con cui ho avuto un rapporto importante e che non ci sono più, stento a considerare che non siano presenti nella mia vita, perché in effetti ci sono».

È uno stralcio di un’intervista che Javier Marías rilasciò a Francesca Borrelli nel settembre nel 2000 quando era ospite al Festival di letteratura di Mantova. Ora, ventidue anni dopo e mentre l’edizione di quest’anno sta chiudendo i battenti, Javier Marías è morto nella Clinica Quirón di Madrid, dove da diversi mesi era ricoverato a causa di problemi derivanti da una polmonite bilaterale. Un lettore vorrebbe adesso dedicargli un pensiero rispettoso, una commemorazione, sperando di poter contare mentalmente sulla sua opera per il maggior tempo possibile, e stentando a considerarlo non più presente.

Ma visto quanto lui sapesse essere solenne e ironico, quanto ci tenesse da grande estimatore delle pellicole di Billy Wilder che nei suoi romanzi vivesse quel mélange tra dolore e levità ironica, il giorno che segue la sua morte il lettore vorrebbe innanzitutto ricordare che Marías era il re di un’isola caraibica. Nella Nera schiena del tempo lo scrittore madrileno raccontava di aver ereditato un’isola dei Caraibi e di essere da allora il suo sovrano.

L’isola, vicina ad Antigua è completamente disabitata, passò di mano in mano tra alcuni scrittori prima di lui. Il primo re fu Matthew Shiel, l’autore de La nube purpurea. Poi toccò a John Gawsworth di cui Marías aveva acquistato all’asta documenti autografi, passaporti e oggetti di alcuna utilità, perché lo aveva fatto diventare uno dei personaggi del suo romanzo Tutte le anime.

Com’è, come non è, succede a un certo punto che l’ultimo scrittore a ereditare l’isola Redonda abdicò in favore di Javier Marías. Colombo l’aveva scoperta nel suo secondo viaggio. Che Marías non ci abbia mai messo piede fa il paio con i tanti episodi buffi presenti anche nei suoi romanzi più cupi.

Poco spagnolo

Esordì diciannovenne e da quel romanzo in poi, almeno in patria, molti tra i critici lo hanno considerato un autore poco spagnolo, «nonostante scrivessi in quella lingua», controbatteva spiritosamente lui. Nella sua breve esperienza da docente ad Oxford insegnò Cervantes. Tradusse Joseph Conrad e il Tristram Shandy, imparando così la “flessibilità nella trattazione del tempo” da Laurence Sterne, e fece conoscere in Spagna l’opera di Thomas Bernhard.

Esattamente come Jaime Deza il protagonista dei tre romanzi che compongono la serie Il tuo volto domani, che amici, conoscenti, colleghi e persino familiari chiamano o Jacobo o Jack o Jacques o Yago, e che è al servizio di un’oscura organizzazione di spionaggio inglese per merito del suo straordinario talento di saper leggere i visi delle persone e di prevederne i comportamenti, anche Javier Marías era capace di decifrare le crittografie sotto cui nascondeva i suoi personaggi. 

La sua è stata una letteratura di profondità ed è stata una letteratura mozzafiato. La trilogia rimarrà, in compagnia anche di altri suoi romanzi più recenti tra i quali Berta Isla, tra i capolavori del nostro secolo.

Prese da William Shakespeare i titoli per due dei suoi più celebri romanzi, Un cuore così bianco e Domani nella battaglia pensa a me. Il primo è pari pari una battuta di Lady Macbeth, mentre il secondo riprende il presagio della vendetta che in sogno si annuncia a Riccardo III per bocca degli spettri di quelli che nella vita ha tradito e ucciso. I tradimenti, la vendetta, il cinismo, il disinganno, l’incantamento: la vita è sempre una doppia convivenza con il segreto e con l’inganno. La prevalenza del segreto, a dispetto della vacuità di quanto accade in superfice, insieme alla fatuità del ricordo, alla labilità delle nostre gesta al cospetto del tempo, sono tra i temi ricorrenti delle sue opere.

Come lavorasse, Marías lo raccontò nelle pagine Errare con la bussola. Diceva di essere l’esatto contrario del romanziere che sa ogni cosa sulla vicenda e sui personaggi prima ancora di mettersi davanti alla pagina bianca; non ha mai avuto, per nessuno dei suoi libri, neanche per quelli in cui il congegno si sarebbe rivelato complesso e l’intreccio arzigogolato, una cartina in cui avesse riprodotto in scala la vicenda romanzesca.

Sosteneva, al contrario, di farsi bastare una bussola. Perciò non erano rare le occasioni in cui si ritrovava davanti a un burrone o a una strada chiusa. Anche davanti a quello strapiombo o a quell’ostacolo invalicabile, Marías non si scomponeva e soprattutto non rivedeva le pagine precedenti per cancellare l’imprevisto: invece che correggersi, invece che rettificare, inventava una nuova via che gli consentisse di entrare anche da una porta chiusa. «Non modifico la pagina due in favore della pagina duecentesima, per intenderci», raccontava in un’intervista al «Manifesto» a Roma nel 1998.

Del suo grande amico nonché maestro Juan Benet, Marías scrisse che «non è questione di afferrare o seguire una storia terrificante e magnifica, ma di leggere, e di fare una pausa e meravigliarsi, e di continuare a leggere».  Da lui imparò ad ascoltare la musica, ma non apprese invece nulla dal punto di vista delle tecniche narrative perché era uno di quei benemeriti scrittori che scoraggiano i loro possibili discepoli di seguire le sue tracce.

Gli incipit di Domani nella battaglia pensa a me - «Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi» – e quello di Cuore Bianco, il romanzo che arrivò in Italia grazie a Donzelli prima che Einaudi diventasse il suo editore italiano - «Non ho voluto sapere, ma ho saputo che una delle bambine, quando non era più bambina ed era appena tornata dal viaggio di nozze, andò in bagno, si mise davanti allo specchio, si sbottonò la camicetta, si sfilò il reggiseno e si cercò il cuore con la canna della pisola di suo padre, il quale si trovava in sala da pranzo in compagna di parte della famiglia e di tre ospiti. Quando echeggiò lo sparo, più o meno cinque minuti dopo che la bambina si era allontanata, il padre non si alzò subito da tavolo, ma restò per qualche secondo incapace di muoversi e con la bocca piena, senza riuscire a masticare né ingoiare e tantomeno sputare il boccone nel piatto; e quando, alla fine, reagì e corse in bagno, chi lo aveva seguito notò che mentre scopriva il corpo insanguinato della figlia e si metteva le mani nei capelli continuava a passare il boccone di carne da una guancia all’altra, senza sapere che farne» – sono due tra i tanti incipit dei suoi romanzi in cui compare la morte. Un altro è quello di Veleno e ombra e addio – «Uno non lo desidera ma preferisce sempre che muoia chi sta al suo fianco, in una missione o in battaglia, in una squadriglia aerea o sotto un bombardamento o nella trincea quando ce n’erano, in una rapina di strada o nel colpo a un negozio o in un sequestro di turisti, in un terremoto, un’esplosione, un attentato, un incendio, fa lo stesso: il compagno, il fratello, il padre o persino il figlio, anche se bambino. E anche la donna amata, anche la donna amata, piuttosto che se stesso».

Marías sosteneva fosse per puro caso. Per un tristissimo, puro caso, sotto forma di polmonite, lo scrittore è deceduto nella seconda domenica di settembre, a pochi giorni dal compimento del settantunesimo compleanno. Sarà cremato a Madrid. È stato un grande tifoso del Real Madrid, come lo sanno coloro che hanno letto Selvaggi e sentimentali, e sarà per sempre un grandissimo scrittore, come lo avrà intuito chiunque abbia letto un suo rigo.

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