Immaginiamo una società in cui le persone non devono più lavorare, ma ricevono un reddito di base universale. No, anzi, ho cambiato idea: non immaginiamo questo tipo di società.

Lasciamo piuttosto che a immaginarla siano gli altri, e in particolare due diverse categorie di persone: le persone che per ragioni politiche e spirituali sono portate a vedere molto positivamente una società in cui non si lavori più, e le persone che invece sono portate a vederla molto negativamente.

Nel primo caso, avremo uno scenario più utopistico, nel secondo caso uno scenario più distopico. Quanto utopistico e quanto distopico dipende, come ovvio, dalle opinioni personali di chi legge.

Chiamiamo il primo scenario “La Società delle Menti Libere”. In questa società, grazie allo sviluppo notevole della tecnologia, le persone non sono più costrette a lavorare in senso convenzionale, e cioè a prestare il proprio sforzo in cambio di una remunerazione, ma sono libere di seguire passioni, interessi e sviluppo personale senza il vincolo delle preoccupazioni finanziarie.

I cittadini ricevono un reddito che copre le loro necessità di base, tra cui alloggio, cibo, assistenza sanitaria e educazione. Il reddito elimina la povertà e permette agli individui di migliorare e crescere in modi prima inimmaginabili.

Tolto il peso della sopravvivenza, tutti hanno il tempo e la libertà di esplorare attività creative e intellettuali. Arte, scienza, letteratura e innovazione prosperano mentre gli individui seguono le loro vere inclinazioni. Anche l’imprenditoria, guidata dalla passione, fa nascere a un'economia vibrante e diversificata, basata su piccole aziende di collaboratori uniti da obiettivi comuni.

L'istruzione non è più un mezzo per ottenere un lavoro e uno stipendio, è un percorso di crescita. Lo stress legato al lavoro è scomparso, perciò la popolazione è più sana e felice. Il tempo libero permette di sviluppare relazioni più forti con la famiglia e la comunità.

In sintesi, nella Società delle Menti Libere il potenziale umano è pienamente realizzato e la ricerca della felicità è un obiettivo sociale concreto.

La società dell’apatia

Passiamo ora allo scenario distopico, che chiameremo “La Società dell’Apatia e del Declino”. Anche qui le persone non sono più obbligate a lavorare in senso tradizionale, e ricevono un reddito di base garantito. Tuttavia, l'assenza di obblighi e la mancanza di incentivi a contribuire hanno portato a un’apatia diffusa e a un senso di inutilità del vivere.

Molte persone hanno perso l’identità e si sentono prive di direzione. Passano le giornate a far nulla e ogni tanto cedono a forme di intrattenimento che lasciano addosso una sensazione di vuoto. Creatività, innovazione e ambizione sono ridotte, l'economia è stagnante e il declino culturale imperversa.

Le infrastrutture e i servizi pubblici sono deteriorati a causa della mancanza di lavoratori motivati e di professionisti qualificati in molti ambiti critici. La produttività è crollata. Il tessuto sociale si è sfilacciato perché le persone sono diventate sempre più isolate e indifferenti.

In sintesi, nella Società dell'Apatia e del Declino la decadenza è continua e evidente.

Lascio al lettore o alla lettrice di questa rubrica una possibilità di riflettere: quando immagina una società in cui non si lavora, la sensazione che prova è più simile al primo scenario o al secondo? Si tratta di due visioni estreme, naturalmente. Entrambe evitano di affrontare alcune criticità che le renderebbero forse meno estreme. Ma comunque è interessante capire dove, per istinto, si dirige la nostra mente.

Gli scrittori

Per gioco, visto che nella vita scrivo, mi sono chiesta cosa farebbero gli scrittori in queste due società. Nello scenario utopistico sarebbero più valorizzati? Potrebbero avventurarsi in esplorazioni intellettuali ardite? Potrebbero scrivere in piena libertà, senza alcuna ansia economica? Tutta questa libertà, alla fine, li ucciderebbe? Oppure scomparirebbero nell’indistinto, essendo troppi, visto che, come si dice anche senza utopie, “oggi scrivono tutti”? Si ammazzerebbero a vicenda cercando di rispondere alla domanda impossibile, e cioè “chi stabilisce chi è un vero scrittore e chi no”?

E nella società distopica? Avrebbero accesso a meravigliose storie di disperazione che si trasformerebbero subito in bellissimi romanzi? Potrebbero fornire, con i loro libri, una via di fuga dall’apatia? Potrebbero lottare per preservare un patrimonio culturale minacciato dalla nullafacenza? Sarebbero linciati da una popolazione annoiata che non capisce se gli scrittori sono degli sfaticati o l’ultimo residuo della cultura del lavoro?

Come sempre la scrittura è un pensiero strano.

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