Così come i libri una volta pubblicati, anche le docuserie appena rilasciate vivono di vita propria e non ti appartengono più, che tu sia l’autore, il regista o il montatore. A un certo punto diventano di tutti. E vivono di vita propria. Sono figlie in cerca della loro strada.

Ho scritto la docuserie “Sanpa – Luci e tenebre di San Patrignano” assieme a Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, e adesso che è disponibile su Netflix guardo la nostra creatura crescere nel mondo e sono curiosissimo.

Mia sorella mi dice che l’ha vista col marito e suo figlio quattordicenne, l’altro figlio è troppo piccolo. La visione è durata diverse serate, seduti sul divano e mettendo spessissimo in pausa “per spiegare bene a mio figlio le cose che ha spiegato male lo zio!”, scherza mia sorella.

“Tipo?”, chiedo io non troppo sicuro che stia davvero scherzando.

“Tipo cos’è la droga oggi, l’AIDS, la libertà, la famiglia, il potere della televisione, la democrazia…”

Dopo questa telefonata mi sono reso conto che sotto i post di Sanpa moltissimi commenti e messaggi privati contengono questa stessa scena, genitori e figli che si ritrovano di fronte alla docuserie e ne discutono. Hanno un tenore comune.

“Finalmente abbiamo parlato di droga coi miei.”

“Io sono del ’59, so bene di cosa parlate; ora lo sa anche la mia famiglia”

“Son stata a Sanpa quattro anni, l’ho vissuta, ma non sapevo come parlarne. Grazie”

“La famiglia Righetti composta da due nonni, due genitori e cinque figli ringrazia per le sette ore di dibattito post visione”

 “Ehi, stronzo, son tre sere che i miei figli mi fanno domande su “famiglia elettiva” e antiproibizionismo. Ci vieni tu domani a rispondere?”

Alimentare il dibattito è uno degli scopi di un documentario e per quanto mi riguarda un obiettivo importante, soprattutto se sotto forma di discussione informata in egual misura da tutte le parti scansando così definitivamente la ormai onnipresente contrapposizione fra tifoserie che si odiano a prescindere. Ma la docuserie, con la sua possibile fruizione anche in dosi massicce o centellinate a piacere, anche il fatto di vederla in tv, a casa propria, con tutte le pause necessarie per cioccolato&varie, farla diventare un momento di confronto fra generazioni mi sembra un bel traguardo. E anche una sorpresa. Soprattutto perché, a leggere i commenti, non si discute affatto solo di San Patrignano e di Vincenzo Muccioli, ma la maggior parte la prende a pretesto per parlare di libertà, di scelte, di cosa sono le buone idee, di cosa significhi limite, di proibizionismo, di essere una famiglia, di padri, di madri, d’Italia, di noi.

Frammentisimili

Tutto questo avviene ovviamente anche perché Sanpa non è solo la storia di San Patrignano. È un documentario sul potere, il potere degli uomini, delle sostanze, della fede o del bisogno di averne una, il potere della politica, della famiglia e dell’ambiguità. Una storia sul nostro bisogno atavico dell’uomo forte che risolve lui senza farci sapere troppo. E anche il fatto che non fosse mai stata raccontata dall’inizio alla fine - forse nella speranza che nessuno facesse troppe domande - ne spiega ora l’interesse così impellente.

Credo che abbiamo tutti un bisogno fortissimo di una memoria condivisa che sturi un po’ i canali incrostati della comunicazione fra generazioni, che funga da collante, che dia in pasto temi comuni e storie esemplari, che pungoli, che obblighi al confronto. La memoria collettiva è ciò che da semplici condomini dello stesso suolo ci rende comunità, popolo, un unico Paese.

A un certo punto, sempre dalla fonte inesauribile dei commenti e grazie anche a qualche spifferata colloquiale, mi giungono voci di famiglie che si chiedono se in quella precisa frase del documentario Walter Delogu stesse mentendo perché il suo bodylanguage sembra dichiarare altro; altri che discutono del punto di svolta del sindaco comunista; so di un marito che è uscito di casa sbattendo la porta all’urlo di: “Tu di Cantelli non hai capito una mazza!”.

Scrivere una docuserie è come lanciare una pietra in uno stagno e poi stare a guardare i cerchi che si allargano fino a raggiungere tutto. Come nei romanzi o nei film, i personaggi cominciano a camminare con le loro gambe. O forse ricominciano a camminare, perché vivi e veri lo sono stati sempre; serviva costruire un contenitore nel quale potessero parlare ed essere capiti. Non dimenticherò mai lo sguardo e le parole di molti di loro che prima o durante l’intervista dicevano chiaramente o facevano intuire fra lacrime e imbarazzi: “Ma dove siete stati tutti questi anni? Sono quasi quarant’anni che vi aspettavamo per raccontare tutto.”

Sanpa è una storia fatta di storie di persone comuni, italiani degli anni Settanta. Non è solo la storia di Muccioli, è la storia di un gruppo di persone che hanno fatto, volenti o nolenti, un pezzo di cammino insieme, e ognuna ha una propria personalità e un proprio agire e lo spettatore si riconosce o meno in questo catalogo di tratti comuni. Sono archetipi. E c’è il medico, e c’è il filosofo, e c’è il collaborazionista, c’è quello che guarda da fuori, c’è quello che è dentro ma non è mica tanto sicuro di starci, quello che vorrebbe fare di più, il fratello, il buon padre, il giudice, l’invasato fedelissimo, le madri, il pavido, la moglie, il messaggero, il traditore, il figliol prodigo. C’è tutto, è una tragedia. Ed è tutto vero.

Credo che ogni documentario sia l’inizio di un altro documentario. È un seme.

Vedere Sanpa fare i suoi primi passi nel mondo dei 190 paesi in cui arriva Netflix è emozionante; indagare profondamente una storia locale e renderla una narrazione globale che tocca e riguarda tutti, ci fa sentire parte di una comunità che si estende oltre i nostri confini nazionali, parte di un tutto unito nel riconoscerci più simili che dissimili, in 7 miliardi o quanti siamo.

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