A Parigi ho vissuto otto anni. La prima casa in cui ho abitato era un monolocale di dodici metri quadri al settimo piano senza ascensore nel XVI arrondissement, lit mezzanine e wc sur le palier, bagno esterno affacciato sui tetti con porta cigolante e finestrella vista Tour Eiffel.

L’edificio era uno di quelli che sugli annunci immobiliari viene definito «haussmannien haut standing», ma dei suoi interni gloriosi so poco o niente, perché alla mia e alle altre chambres de bonne del palazzo si accedeva per una scala di servizio. Il legno scricchiolante dei gradini e la luce gialla delle lampade regalavano a quelle scale un sapore letterario, ma a rendere memorabile la salita ci aveva pensato uno degli inquilini, che a ogni piano aveva scritto delle frasi di incoraggiamento col pennarello: «Ah oui, c’est dur la vie» al quinto; «Courage, t’es bientôt arrivé(e)» al sesto; «Voilà t’es chez toi» al settimo (a cui qualcun altro, in stampatello, aveva aggiunto: «Pas moi, moi j’habite au huitième»).

Il minuscolo studio in avenue Saint-Honoré d’Eylau, a due passi da place Victor Hugo, è anche la prima casa in cui ho abitato da sola, quella in cui ho imparato a cucinare il magret de canard incidendo la carne a losanghe (e a tenere la finestra aperta mentre lo si fa anche a febbraio, visti i metri quadri disponibili) e quella in cui, una domenica di aprile, mangiando filets de maquereaux au vin blanc direttamente dalla scatola, ho finito di leggere per la prima volta Alla ricerca del tempo perduto, che poi è la ragione per cui, all’inizio di tutto, ero arrivata lì.

Di quanti libri ricordiamo il momento in cui siamo arrivati all’ultima pagina? Forse, non solo per questo, la Recherche è un’eccezione: del giorno in cui sono arrivata in fondo al Tempo ritrovato ricordo i colori, il clima, perfino l’odore (sgombro in scatola, per l’appunto); ricordo che stupore e nostalgia in quel momento formavano un’unica impressione, e mi guardavo intorno come a cercare qualcuno con cui parlare, quasi sorpresa che intorno a me, dopo quel viaggio di quattromila pagine, nulla fosse cambiato.

Le due mensole di legno chiaro, una per le stoviglie, l’altra per i libri; il sorriso ineffabile della ragazza dipinta da Gauguin sul poster di una mostra al Grand Palais, finita prima che arrivassi a Parigi, di cui avevo staccato il manifesto in un bistrot; un cardigan molto lungo, molto morbido e molto grigio che mia madre mi aveva regalato per proteggermi dal freddo prima che partissi da Roma e che mettevo solo per stare in casa; una caraffa di vetro verde con dentro dei garofani un po’ stanchi che mi aveva regalato la settimana prima un’amica che era venuta a trovarmi dall’Italia: mi sembrava che quelle cose vivessero insieme a me quel momento, si mostrassero intelligibili e vicine nel sentimento che l’esperienza della lettura aveva generato.

La Recherche avevo iniziato a leggerla qualche mese prima, quasi per caso, in un’edizione Oscar Mondadori che aveva comprato mia madre quando aveva vent’anni. Lei a Proust aveva rinunciato presto: aveva letto qualche pagina, poi l’aveva riposto sugli scaffali alti della libreria*. Per anni quei sette volumi nessuno li aveva più toccati, una gigantesca opera di consultazione al massimo li avevamo spostati per traslocare: erano intonsi e adesso un po’ ingialliti. Avevo tirato giù il primo, La strada di Swann, un pomeriggio di settembre, qualche settimana prima di partire. La traduzione era quella di Natalia Ginzburg. Di Proust all’epoca sapevo poco o niente, ma mi sentii subito a casa, forse perché avevo letto e amato Lessico famigliare, Le piccole virtú, Caro Michele, e in quelle pagine riconoscevo espressioni che mi erano care, risuonava il timbro di una voce che avevo imparato a conoscere.

Fu lei a presentarmi Proust per la prima volta, ad accompagnarmi dentro la Recherche. Natalia Ginzburg aveva iniziato a lavorare alla traduzione di Du côté de chez Swann quando aveva vent’anni; esattamente gli stessi che avevo io quando ho iniziato a leggerlo (e di mia madre quando lo aveva comprato). Aveva tradotto soltanto il primo volume, e a portare a termine quell’incarico che lei stessa giudicava «folle», sia da proporre (era stato Giulio Einaudi, nel 1937, a commissionarle la traduzione) che da accettare, aveva impiegato quasi otto anni. Era stata una vera e propria impresa, portata avanti con «la minuziosità della formica e l’impeto del cavallo», e il risultato finale era una traduzione che lei stessa aveva definito «difettosa ma appassionata». Nella sua versione non mancano imprecisioni, piccole sviste, forzature che fanno storcere il naso ai proustiani più rigorosi, che infatti solitamente preferiscono l’altra celebre traduzione della Recherche, quella di Giovanni Raboni, che a partire dagli anni Ottanta tradusse per intero Alla ricerca del tempo perduto per i Meridiani Mondadori.

Eppure nel Proust della Ginzburg c’è una vitalità incontestabile, un piglio al tempo stesso umile e irriverente. Bastano le prime righe per avvertirne l’impronta: «Per molto tempo mi sono coricato presto la sera. A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi così subito che neppure potevo dire a me stesso: “M’addormento”. E, una mezz’ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi averlo ancora tra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguito le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevano preso una forma un po’ speciale; mi sembrava d’essere io stesso l’argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V».

Mi capita spesso di sentire di persone che vorrebbero iniziare la Recherche ma rimandano, aspettano il momento perfetto o perlomeno adatto, si dicono che non sono ancora pronte, che sono troppo occupate o non sono all’altezza. Forse, perfino nel caso di Proust, l’unica via è iniziare e basta. Di sicuro, per quanto mi riguarda, la leggerezza un po’ avventata con cui mi accostai alla Recherche fu incoraggiata dalla traduzione della Ginzburg, dalla accogliente edizione economica, dalle pagine iniziali sottolineate pigramente qui e là da mia madre, che, prima di desistere, qualche pagina sembrava averla amata.

Chissà, magari se appollaiati sugli scaffali della libreria ci fossero stati degli austeri Meridiani di carta velina, le cose sarebbero andate diversamente. Quel primo volume comunque non lo rimisi più a posto, lo finii in due giorni e iniziai All’ombra delle fanciulle in fiore, dove Natalia Ginzburg aveva lasciato il posto a Franco Calamandrei e Nicoletta Neri. Bastarono poche pagine e quello divenne il libro più bello che avessi mai letto; improvvisamente non desideravo più occuparmi d’altro.

Qualche giorno più tardi mi presentai dal professore di Italianistica con cui avevo deciso di laurearmi: gli spiegai che ero in partenza per la Francia e, con motivazioni piuttosto goffe, gli chiesi di lavorare sulla Recherche. Ero certa che mi avrebbe risposto di no, perché era un professore molto indaffarato e un po’ burbero e da diverse settimane, ormai, avevamo iniziato a parlare di una tesi su Dino Buzzati. Non sapevo che invece era un proustiano appassionato: mi rivolse un sorriso che non gli avevo mai visto, chiamò il rettore in vivavoce per chiedergli il permesso di laureare una studentessa del suo corso su un autore francese, mi consigliò un paio di libri di critica e un bistrot dalle parti di Saint-Sulpice dove, secondo lui, c’erano i migliori croque-monsieur della città, mi ripeté più volte che mi invidiava molto («non so più se per Parigi o per Proust, a dire il vero», precisò dopo la dritta sui croque-monsieur) e mi augurò buon viaggio.

Arrivai a Parigi a metà ottobre, in piena été indien. In valigia avevo una scorta di parmigiano e i volumi della Recherche avvolti a uno a uno nei maglioni. Mi sistemai nei miei dodici metri quadri, e pochi giorni dopo iniziai i corsi all’università.

Avevo vent’anni, e non passavo certo tutto il mio tempo chiusa in casa sui libri. Semplicemente, per mesi, la mia vita interiore coincise con la lettura della Recherche. Cosí, mentre imparavo a far bruciare il papier d’Arménie, a usare il Paris par Arrondissement, a preparare un exposé o a ordinare un demi de bière blanche, mentre iniziavo a distinguere la rive droite dalla gauche, un kir normale da un kir royal, una baguette nature da una tradition e anche quando servivo pasta scotta in un ristorante italiano, lavoravo come hôtesse d’accueil o facevo le quattro del mattino al Rex o al Truskel, in qualche modo ero sempre lì tra Guermantes e Verdurin, a sospirare per Albertine e a ridere di Bloch, a adorare Swann e a perdonare Odette, a detestare Oriane e ad arrossire di fronte a Charlus.

da Paris, s’il vous plaît, Einaudi, 2022

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