Saranno un centinaio, bambini compresi. Hanno bloccato la principale strada della città e cantano camminando dietro una Smart decappottabile che avanza a passo d’uomo guidata da Silvi, il coniglio-mascotte di Norðoya Sparikassi, il principale sponsor del Ki Klaksvik, la squadra che ha già portato la seconda città più popolosa delle Fær Øer - 5mila abitanti in tutto - nella storia del calcio, o almeno in quella di queste 18 isole.

Giorgio Manganelli le aveva definite «nere cime di montagne sottomarine emerse a mezza strada tra Norvegia e Islanda» e lì se ne stanno, dimenticate dai più e spesso anche dalle carte geografiche. Se alcune mappe le omettono, così non potrà più fare l’Uefa nel suo elenco di nazioni rappresentate nelle competizioni europee, perché - comunque andrà la partita del 15 agosto tra Ki Klaksvik e i norvegesi del Molde - le Fær Øer giocheranno in Europa: Champions League nel migliore dei casi, Conference League nel peggiore.

È per questo che nella cittadina sull’isola di Borðoy già festeggiano. È per questo che al Frida Café è finita la zuppa di pesce. È per questo che le due signore che sferruzzano nel negozio di maglioni tradizionali hanno messo in vetrina quelli di colore blu elettrico, il colore del Ki.

È per questo che in molti alle grandi finestre delle case hanno appeso la bandiera della squadra, la stessa che sventola attorno allo stadio da 2.600 posti (di cui solo 1.500 seduti). Per trovare un campo con una maggiore capienza bisogna arrivare nella capitale Torshavn, sull’isola di Streymoy: 5.500 posti attorno al Tórsvøllur, costruito nel 1995 e già omologato da Fifa e Uefa. Qui gioca la nazionale faroese ed è qui che il Ki ha battuto all’andata per 2-1 il Molde. E sarà qui che arriveranno le più blasonate squadre d’Europa, qui in questo arcipelago dimenticato da alcune mappe o semplicemente troppo piccolo per essere individuato.

I loro lavori

Quanti saranno i tifosi ospiti a volare fin qua è difficile prevederlo, ma non sarà difficile riempire il Tórsvøllur anche solo con i faroesi che già in questi giorni hanno messo in secondo piano le rivalità interne del campionato nazionale, per supportare compatti la squadra che i giornali di mezzo mondo definiscono «del miracolo». La verità è che a tutti piacciono le favole, e allora che favola sia: nel Ki (come in tutte le altre 9 squadre della serie A) giocano falegnami, elettricisti, operai impiegati nelle fabbriche di pesce. Tutto vero. Com’è vero quello che si dice in città: quando il Klaksvik vince, negli stabilimenti in cui lavorano salmoni e merluzzi, i ritmi sono più alti e gli animi più allegri. Al contrario, dopo le sconfitte lo sconforto dei dipendenti-tifosi rallenta il lavoro. Ultimamente, però, accade meno, il Ki le vince tutte: è primo in classifica, con 10 e 11 punti di vantaggio sulle due squadre della capitale. Ha perso solo venerdì scorso contro il Vikingur di Gøta, ma tutti pensano che sia meglio così: i giocatori più forti si stanno riposando in attesa del ritorno contro il Molde che li porterà (in ogni caso) in Europa. Hanno perfino avuto qualche giorno libero dai loro datori di lavoro “veri”, come ogni tanto succede dopo le partite importanti. Nel resto dei giorni, invece, turni di lavoro e allenamenti convivono: alle 17 le fabbriche si svuotano e i campi si riempiono.

A proposito dei campi: ce ne sono in ogni paesino, persino in quelli dove se pure scendessero in campo tutti gli uomini residenti, non si riuscirebbe a mettere insieme due squadre. È per questo che spesso si vedono porte piazzate a centrocampo, per trasformare il calcio da 11 in calcio a 7, o a 5. A Æðuvík, un borgo di 100 abitanti sull’isola di Eysturoy, sul campo c’è solo un bambino biondo. Tira punizioni e rigori contro un portiere immaginario. Poco distanti, quattro bambine cantano e giocano a rincorrersi per strada, ché tanto di auto qui non ne passano. Il bambino continua a tirare calci al pallone perfezionando il suo tiro a giro che supera barriere di difensori invisibili e spiazza avversari trasparenti. Quando non finiscono in porta, i suoi palloni finiscono in mare, come succede spesso in molti campi delle Fær Øer, costruiti a picco sull’oceano e per questo inseriti in tutte le classifiche dei più scenografici del mondo. Ci dev’essere un’isola artificiale, da qualche parte nell’Atlantico, formata dai palloni persi e trascinati dalla corrente. Un’isola frutto di tutti gli errori, sarebbe bello se fosse davvero possibile confinarli lì e dimenticarsene, pensa il bambino biondo.

La domenica pomeriggio, suo padre lo porta allo stadio, a guardare i campioni: Jákup Andreasen, 25enne capitano del Ki, elettricista; Arni Frederiksberg, attaccante part time, addetto alle vendite all’ingrosso ed esportatore di pizze surgelate in Norvegia; Nils Johansson, il portiere che si era ritirato, poi ci ha ripensato ed è ripartito dalla quinta categoria norvegese, prima di finire tra i pali del Ki. Andare allo stadio, da queste parti, è una festa: i biglietti sono tra le cose più economiche che si possano comprare nell’arcipelago, si prendono direttamente all’ingresso degli stadi, dove i pochi posti a sedere non sono mai tutti occupati. Alla fine della partita i figli dei giocatori corrono in campo per abbracciare i padri, le fidanzate aspettano i calciatori dietro le panchine per baciarli, i tifosi raccolgono le bandierine infilzate nel prato a sventolare grazie a un vento che qui non dà tregua mai.

Chi non va allo stadio può guardare le partite online su un sito a pagamento (non si sa quanto legale). In alternativa, per conoscere i risultati ci si può affidare a Google, che però li aggiorna solo a match finito e non in tempo reale, come per tutti gli altri campionati del mondo.

I gol e il vento

Chi viene da queste parti lo fa per starsene in silenzio, per farsi prendere a sberle dal vento e mangiare salmone. Per questo l’euforia festosa di Klaksvik quasi stona con quello che ci si aspetta quando si scende dall’aereo nell’unico aeroporto dell’arcipelago, quello di Vagar, un’unica pista lunga 1799 metri che finisce dritta dritta nel lago Leitisvatn, famoso per sembrare sospeso sull’oceano. Ci si arriva con un trekking facile, al termine del quale però non è detto che il panorama tanto atteso quanto spettacolare sia visibile: se c’è nebbia o nuvole basse ci si trova a guardare il nulla. D’altronde quassù - più che altrove - si capisce che la vita non va sempre come vogliamo noi. Più spesso, ti spinge dove tira il vento, o dove vuole lei. E chissà dove andrà quella del bambino biondo di Æðuvík che tira punizioni nel sette senza degnare di uno sguardo le bambine che sghignazzano fuori dal campo. Forse ne sposerà una, un giorno. Ma oggi l’unica cosa che gli interessa e che quella palla prenda l’effetto giusto, superi il portiere fantasma e gonfi la rete. Quando succede, lui comincia a correre per tutto il campo e festeggia davanti a una folla immaginaria, e chissà come dev’essere una folla per un bambino nato in un Paese di 52mila abitanti.

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