Sono stati annunciati i dodici candidati finalisti al premio Strega 2025: Valerio Aiolli (“Portofino blues”, Voland); Saba Anglana (“La signora meraviglia”, Sellerio); Andrea Bajani (“L'anniversario”, Feltrinelli); Elvio Carrieri (“Poveri a noi”, Ventanas); Deborah Gambetta (“Incompletezza. Una storia di Kurt Gödel”, Ponte alle Grazie); Wanda Marasco (“Di spalle a questo mondo”, Neri Pozza); Renato Martinoni (Ricordi di suoni e di luci. Storia di un poeta e della sua follia”, Manni); Paolo Nori (“Chiudo la porta e urlo”, Mondadori); Elisabetta Rasy (“Perduto è questo mare”, Rizzoli); Michele Ruol (“Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, TerraRossa); Nadia Terranova (“Quello che so di te”, Guanda); Giorgio van Straten, “La ribelle. Vita straordinaria di Nada Parri”, Laterza).

La proclamazione della cinquina finalista si terrà mercoledì 4 giugno, il vincitore sarà annunciato il prossimo tre luglio.


Un romanzo su due destini, raccontati da chi di questi destini è stata testimone ma che, per dar loro luce, fa un passo indietro, albergando solo nella scrittura. I destini sono del padre della testimone - la scrittrice - e di Raffaele La Capria, tra i più grandi autori italiani del Novecento. Perduto è questo mare, Rizzoli 2025, è il nuovo romanzo di Elisabetta Rasy - saggista e romanziera, nel corso di una carriera ricchissima ha vinto il premio Mondello e il Grinzane Cavour, ed è stata due volte finalista al Campiello. Proposto al premio Strega 2025, Perduto è questo mare parte dalla Napoli degli anni Cinquanta per indagare i rapporti che crediamo di aver seppellito.

“La terra promessa è sempre una terra perduta”. Me ne parla, Rasy?

Le terre promesse in qualche maniera appartengono spesso al mondo perduto dei sogni, non alla realtà, e credo debbano mantenere questo aspetto illusorio. Uno dei suoi scopi con questo romanzo era indagare i rapporti. Il tema di questo libro è che le relazioni, in fondo, sono imprevedibili. Alcune possono esser tenaci, radicate nel nostro cuore, altre, altre che magari davamo per indissolubili, si spezzano con facilità. Il romanzo si concentra sulle prime. Nello specifico: sulla relazione amicale che ho avuto con Raffaele La Capria, su quella filiale con mio padre. Due legami che si sono intrecciati, a distanza di anni: La Capria, mio Virgilio, mi ha portata nel regno del passato.

Dunque?

Dunque viene fuori che le relazioni, pure quelle finite, sono qualcosa che non possiamo eludere, che dobbiamo affrontare in tutta la loro tortuosità. Quel che viene fuori è l’invincibilità delle relazioni: noi esistiamo perché ci intessiamo alle storie degli altri.

Come ha usato la memoria per la scrittura del romanzo?

Per mettere a fuoco zone dolorose del passato, capire cosa sia successo. Ecco, mai con l’intenzione di rivendicare o vendicarmi, ma sempre di comprendere.

Parliamo, quindi, dei protagonisti di questa storia: suo padre e Raffaele La Capria. Iniziamo dal primo. Dovessi chiederle un ricordo con lui, quel che su due piedi le viene in mente?

Una scena della mia infanzia. Quando ero piccola con lui facevo passeggiate, spesso anche lunghe. In quelle occasioni, lui cantava dei motivetti e io, invece di camminare, danzavo sulle note di ciò che stava intonando.

Era bravo?

Aveva una voce molto bella. Amava cantare, conosceva tantissime canzoni.

Un ricordo positivo.

Sì. Ne ho parecchi di bei ricordi con lui.

Tempo dopo, però, tornata a Napoli, incontrò una persona diversa.

Prima era un uomo genuinamente fiducioso della vita, un uomo che, appunto, passeggiava con la figlia e canticchiava. Tornata, trovai un uomo spezzato.

Contro cosa si era scontrato, per subire questo cambiamento?

L’abbandono di mia madre, donna che lui amava molto. E la Napoli del dopo Guerra, città tagliata fuori dalla storia in cui sopravvivevano antiche miserie, sopraffazioni e antichi pregiudizi, città senza prospettive. Tant’è che ci fu una grande migrazione borghese. Buona parte del ceto professionale aperto, operoso lasciò la città, preferendole Milano, Roma, Torino, lì dove le cose andavano meglio. La Capria stesso, ma pure Golino, Ghirelli, Ortese, Giorgio Napolitano - anche se lui intraprese la carriera politica. Una cosa grave per la città: il ceto medio degli intellettuali aveva deciso di andar via.

Dopo, dunque, trovò un uomo spezzato, diceva.

La sua fiducia nella vita e il suo slancio verso il mondo si erano come seccati. Si era imbarcato in lavori fallimentari, era piuttosto solo. Fondamentalmente, era un uomo depresso, però allora non era una parola utilizzata - depressione. Noi oggi ne abbiamo una buona dimestichezza, ma all’epoca non la si diceva proprio. Tuttalpiù, si parlava di esaurimento nervoso per le signore, null’altro. L’uomo doveva essere forte, non poteva crollare, deprimersi.

Una frangia del patriarcato.

Il patriarcato si scatena sulle donne, che ne sono il bersaglio privilegiato, però colpisce pure gli uomini. Non concede loro alcuna fragilità.

Come cambiò il vostro rapporto?

Dal giorno alla notte. E non è un’immagine che uso a caso. Il padre allegro e spensierato, il padre solare che mi portava al mare, che mi aveva insegnato a nuotare, che cantava mentre io ballavo accanto a lui, che mi leggeva romanzi meravigliosi fino a farmi addormentare, i fumetti modificando la propria voce in base ai personaggi, quel padre gioioso che mi aveva cresciuta non esisteva più. Trovai un uomo che si rifugiava spesso nel sonno per non dover avere a che fare con gli altri, che stava molto in silenzio, al buio. Sì, il nostro rapporto cambiò dal giorno alla notte.

Provò rabbia?

Provai il desiderio di scappare il più lontano possibile da lui, di non pensarci, a lui, alla mia infanzia, mai più. Volevo cancellarlo. Non misi piede a Napoli per anni, cercai di rimuovere, dimenticare, ma la mia era una pretesa eccessiva e lo capii incontrando La Capria. Fu lui che fece riaffiorare tutto. Non avevo dimenticato alcunché, il bastione della mia infanzia era nelle mie profondità.

La Capria, allora. Le farei la stessa domanda che le ho fatto su suo padre: un ricordo con lui, quel che su due piedi le viene in mente?

Facile, è un ricordo indelebile. Andai da lui per un’intervista, stranamente non ricordo se per L’armonia perduta o per La neve sul Vesuvio, ad ogni modo un libro che inaugurava la sua nuova stagione dopo un lungo periodo di silenzio. Una stagione ricca, stupenda. Insomma andai da lui e fu come una rivelazione vera e propria. Nel suo modo di vestire, di parlare, mi riportò immediatamente a qualcosa di personale, di intimo della mia storia. Tanto che intervistandolo mi distraevo di continuo. Guardavo la sua giacca, ascoltavo la sua inflessione, la lingua mai precaria, incerta, sempre elegante, ma mai troppo ricercata, e avvertivo qualcosa di perturbante, che andava a rimestare nelle profondità di me stessa.

Come andò?

Benissimo, naturalmente. Anche se feci spesso osservazioni sciocche, proprio perché distratta. D’un tratto, dal nulla, gli dissi che bella la sua giacca!. Non so cosa pensò di me quel giorno, ma fu gentilissimo.

Fu un bel momento, insomma.

Secondo me esiste il colpo di fulmine anche nelle amicizie, e quello fu un colpo di fulmine dell’amicizia. Ero ipnotizzata, incantata da quest’uomo che non avevo mai visto prima e che mi riportava in modo così perturbante alla mia infanzia - senza volerlo e senza saperlo, peraltro.

Cosa c’era della sua infanzia in La Capria?

Qualcosa di impalpabile, che aveva a che fare con piccoli dettagli che mi ricordavano certe figure maschili di allora.

Mi dà un difetto di La Capria?

Quello che gli attribuivano tutti: era sempre distratto, sempre da un’altra parte.

La ragione?

Eh, avrebbe dovuto chiederlo a lui. Era un malinconico, questo è certo.

Malinconico?

Si sentiva piuttosto a disagio, inadeguato nei confronti di un mondo che era in gran parte basato sulle apparenze, e questo, assieme certamente ad altro, lo immalinconiva.

Cos’altro?

Provava una fortissima simpatia per tutto ciò che era vivente, per il creato per intero. Che fosse un paesaggio, che fossero animali, persone. Era un uomo di istintiva accoglienza, una qualità non ideologica ma propria del carattere.

Si arrabbiava?

Raramente. Se c’era una cosa che proprio odiava era il trionfo dei luoghi comuni. Era insofferente, poi, delle mode culturali, delle approssimazioni, delle grandi dichiarazioni di intenti e degli eroismi a perdere.

Con lei?

Lo faceva innervosire la mia irruenza. Lui tendeva alla calma, io sono sempre stata un po’ una testa calda, e la cosa lo faceva arrabbiare.

C’è qualcosa che non ha avuto la possibilità di dirgli e che se fosse in vita, appunto, gli direbbe?

Lo vorrei ringraziare per avermi insegnato, in modo del tutto naturale, e senza tentativi pedagogici, la compostezza, il saper stare al mondo in modo posato. E per avermi insegnato che ci vuole libertà per scrivere.

A suo padre?

Vorrei ringraziare pure lui. Per essere riuscito a trasmettermi, finché ha potuto, quella sua gioia di vivere così fanciullesca.

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