Un giorno vedemmo un’isola in lontananza, a forma di cono, con una costa scoscesa e nuda, e un pennacchio di fumo si alzava sopra di essa. Un vulcano. Avevamo bisogno di fare provvista d’acqua, così ci avvicinammo. Sulle falde del vulcano vedemmo luccicare un palazzo, tutto di bronzo.

Nessun uomo può possedere una dimora simile e certo il padrone era un essere divino. Quando la flotta attraccò, sbarcai assieme all’araldo, mentre i compagni rimanevano timorosi vicino alle navi. Poco discosto ci stava guardando un essere che sembrava umano, ma aveva un viso obliquo, come contraffatto. Però pareva ospitale.

«Sono Macaréo – disse – figlio di Eolo che regna su quest’isola. Nessun altro ci abita, però, solo noi. Eolo ha avuto sei figli e sei figlie, un numero perfetto – e intanto rise – perché ora nessuno è geloso, capite, non abbiamo contese. Sei figli e sei figlie, che volete di più?».

Sembrava che ci aspettasse. Sì verso il palazzo di bronzo per un sentiero scosceso, e noi lo seguimmo. Attorno alcune capre ci guardavano, indifferenti. «Ognuno di noi dorme con sua sorella, riprese l’uomo dal viso contraffatto, ciascuno nella sua stanza di bronzo; sei coppie, e siamo fedeli. Di giorno ci raduniamo nella sala comune e banchettiamo con nostro papà e nostra mamma». Di molti popoli ho visto i costumi, ma nessuno mai praticava questo uso, di dormire con la sorella. «Altri abitanti non ci sono qui, davvero?», chiesi.

Il signore dei venti

«No straniero, nessuno. Vogliamo starcene in pace tra noi, fratelli e sorelle; non portiamo armi, non abbiamo nessuna paura. Del resto non c’è da avere paura. Se arrivasse qualcuno con brutte intenzioni... Fffff...». Soffiò e le guance si gonfiarono come quelle di un ranocchio. Rise di nuovo.

«Mio padre è il signore dei venti perché Zeus gli ha dato questo potere. Sì straniero: ogni refolo d’aria che spira al mondo viene di qui». Poi la sua faccia assunse un tono spaventato, quasi cambiando colore. «A meno che un dio o Zeus stesso ordini in modo diverso. Allora Eolo obbedisce e noi ci precipitiamo ad aiutarlo. Vedi laggiù?»

Mi indicò col dito una serie di forme scure, disperse qua e là sulle falde del vulcano. Guardai meglio: erano otri di pelle di capra, per la maggior pare sgonfi, ma alcuni pieni e ben legati. «Con quelli – proseguì – Eolo cattura i venti, come trappole, e li chiude lì dentro, oppure slega i lacci degli otri e li lascia andare. Dovresti sentire come sibilano, quando escono, arrabbiati per la prigionia, un rumore assordante, anche se dura un attimo. Mio padre conosce le parole segrete per farli entrare negli otri, e sono obbligati a farlo, obbedienti come agnellini». Rise ancora.

«Ogni vento si agita e si dimena dentro l’otre, e vorrebbe uscire – continuò – ma se uscissero tutti insieme non ci sarebbe niente sulla terra a rimanere fermo, volerebbero persino le case, e tu ti troveresti senza un capello in testa… via tutti, dispersi nel vento… e anche tu, a gambe in aria, in mezzo al cielo!». Rise ancora.

Sciocchi e pazzi, Alcinoo, ne ho conosciuti tanti nella mia vita. Ma il giovane era di una pazzia bizzarra, come se rendesse reali delle fantasie da bambino; cambiai idea subito dopo, quando entrammo nella dimora di Eolo.

La casa 

Era tutta di bronzo, le finestre si aprivano circolari nelle pareti e dentro ogni cosa era di pietra, sedili, tavoli, solo le coppe del vino erano d’oro massiccio. Eolo sedeva sopra un alto trono di pietra e accanto gli stava la sposa; attorno a un tavolo, i figli e le figlie, tutti con un viso sghimbescio, che sembravano identici come le figure riflesse da uno specchio. 

Fu gentile e ospitale con me. Il nome lo conosceva, e anche le imprese compiute dagli eroi sotto Troia. «I venti portano con sé le voci e le notizie, sono i messaggeri più veloci», disse mentre mi porgeva una coppa. Volle che sedessimo con loro, io e l’araldo. 

Anche Eolo aveva un aspetto fuori dal comune, come se la sua vita in mezzo ai venti lo avesse dilatato: occhi sporgenti sgranati, un grande ventre, capigliatura acconciata a formare una specie di cimiero di capelli.

Volle che raccontassi le mie imprese e le storie della guerra; a volte le faceva ripetere, capivo che ne ricavava un grande piacere a immaginare tanti uomini e tante cose accadute in terre lontane, lui che viveva su questo piccolo vulcano solo insieme alla sua famiglia. Le nostre storie gli accendevano la fantasia.

Per un mese intero mi fermai da lui, sempre raccontando, e ogni giorno banchettavamo e bevevamo. I compagni erano rimasti alle navi. Ma anche a loro Eolo mandava vino e carni, ogni giorno capre, maiali, Eolo ne aveva in abbondanza. 

Portaci via

Ogni tanto, dal terrazzo di Eolo, li guardavo mentre facevano il bagno nelle acque scure del porto. Sull’isola crescevano anche grano e viti; sono prodigiose – diceva Eolo – crescono velocissime, appena un grappolo spunta subito diventa nero e gonfio, e fa un vino dolcissimo. 

Raccontai, raccontai sinché fu sazio di parole. Allora lo pregai di aiutarci inviando un vento buono che ci portasse a casa. Non lo negò. Il giorno della partenza vidi un grande otre di pelle di bue chiuso con una catenella d’argento. 

«Qui ho raccolto i venti contrari – disse – ma ho liberato Zefiro, che ti soffierà nelle vele sinché sarai arrivato a casa. Bada di non aprire l’otre, però: scateneresti una tempesta quale non ne hai mai viste in vita tua. Anzi, stai attento quando lo aprirai una volta arrivato; ormeggia bene la nave, scendi a terra, e aprilo in direzione del mare aperto, altrimenti travolgeranno tutto».

Con queste parole mi congedò, e il mio cuore era pieno di gioia. Li avrei riportati a casa, infine, i miei compagni! E tutto per i miei racconti. Oh sì, Alcinoo, niente è più forte della parola. Sembra che non esista, che sia un soffio d’aria, anzi che non abbia nemmeno un corpo; eppure con questo corpo quasi inesistente è capace di fare le cose più grandi: fa iniziare una guerra, la fa cessare, convince una persona a comportarsi in un certo modo, fa avvicinare due cuori che si amano e non lo sanno ancora, produce il piacere del canto che ti ammalia più di un filtro. È il dono più bello che gli dei abbiano fatto ai mortali.

Così scesi con l’otre sulla nave, e due compagni lo portavano. Erano incuriositi, ma io non dissi nulla a nessuno, come mi aveva raccomandato Eolo. Fui imprudente, ora lo so. Ma ero fiducioso nel dono che quell'essere – metà uomo e metà dio – ci aveva fatto.

Il viaggio

Salpammo. Un vento leggero ci prese di poppa e soffiò ininterrottamente per nove giorni e nove notti. Non avemmo mai bisogno di mettere in mare i remi. Io stavo al timone, e non lo volli cedere a nessuno. Non volevo che qualcuno sbagliasse rotta, io sono il migliore timoniere della mia isola. 

Sentivo l’acqua gorgogliare e frusciare sotto la chiglia, il momento più bello di quando si naviga; il mare era spianato, la brezza costante, non avevo mai visto le nostre navi correre più veloci.  Anche i compagni erano allegri, ora, cantavano, scherzavano. Ogni tanto il mio capo si piegava nel sonno, ma subito mi riscuotevo.

Finalmente, dopo nove giorni, Itaca ci apparve all'orizzonte. Era proprio lei, non c’era dubbio, si vedeva la sagoma della sua montagna. Il mare era azzurrissimo, i delfini giocavano saltando davanti alle nostre prue.

Mi sentivo a casa; in lontananza si vedevano le case bianche della mia città. Lì davanti a me stavano Penelope e Telemaco, ancora poche ore, un breve tratto di mare mi separava da loro; avevo percorso tante volte quella rotta, dritto alla prua c’era il porto, e il vento soffiava ancora lieve, me lo sentivo scivolare sulle spalle.

Venti infuriati

Il cuore mi batteva all’impazzata di gioia, quello fu uno dei momenti più felici della mia vita. D’un tratto, la testa mi divenne pesante, le palpebre si chiudevano. Lottai col sonno qualche istante e infine mi addormentai, sempre reggendo il timone: l’avevo legato, non potevo perdere la rotta.

Mi svegliò un sibilo terrificante. Per la nave volava ogni cosa e le onde si erano alzate d’improvviso, a mulinello. Guardai ai miei piedi: l'otre di Eolo era vuoto! I venti ci giravano intorno infuriati e dovemmo ammainare le vele. I pennoni si spezzavano, non si poteva mettere in mare i remi perché era impossibile vogare. I venti e le correnti ci stavano portando al largo; non potete nemmeno immaginare che cosa provai allora, come se mi avessero pugnalato nel petto. 

Con gli occhi pieni di lacrime vidi sparire a poco a poco il mio caro monte di Itaca, dietro l’orizzonte. L’aria era chiarissima, pulita dai venti. Per un attimo pensai di gettarmi in mare e morire lì, almeno in vista della mia isola, tanto grande era la sofferenza per questa beffa assurda del destino. Itaca era davanti a noi e sarebbero bastate poche ore. 

Perché gli dei mi avevano versato addosso il sonno? Perché avevano gettato nella mente dei miei compagni un pensiero folle? Lo capii subito, e me lo dissero anche loro. Erano curiosi di sapere che cosa contenesse l’otre.

«Lui – si dicevano l’un l’altro – torna da Troia pieno di doni, e noi ce ne veniamo a mani vuote dopo tanto combattere. Chissà quanto oro e argento Eolo gli ha donato dentro quell’otre! Perché a Ulisse finiscono tutti i doni, e a noi niente?».

Al punto di partenza

Così si dicevano, mentre ero addormentato, e vollero sciogliere la catena d’argento che legava l’otre, gli sciocchi. E li avevo quasi riportati a casa! Mi avvolsi il capo nel mantello e me ne stetti lì. Non volevo che i miei compagni mi vedessero disperato. Anche loro piangevano, però, e mi circondavano chiedendo perdono. Alcuni mi facevano scivolare i loro pugnali sotto il mantello e gridavano che li dovevo volevo riportarvi a casa. Non parlai per altri nove giorni, sinché tornammo in vista del vulcano di Eolo.

Forse, ci avrebbe concesso un’altra possibilità. Salii per l’erta insieme all’araldo, ma stavolta non c’era nessuno ad accoglierci. Trovai Eolo nella sala insieme alla famiglia mentre stavano banchettando e l’aria era piena dell’odore spesso delle carni arrostite. 

Mi guardò sorpreso: «Perché sei tornato qui, Ulisse? Hai conquistato un’altra città»? Gli raccontai che cosa era successo ma non mi lasciò nemmeno finire: «Via di qua, obbrobrio degli uomini»!  Gridò, e intanto il suo viso sembrava gonfiarsi e diventava di un terribile colore verde, come un rettile e la bocca si dilatava come quella di enorme rospo.

«Quello che è accaduto mi dice che sei in odio agli dei, e che ti vogliono rovinare. Via, via, via».  E anche i figli sembravano una copia del padre, come una famiglia di rospi aggressivi e tutti urlavano con le loro bocche dilatate «Via, via, via!».

Uscii di corsa dalla casa, e scesi verso la nave; avevo paura che mi scatenassero contro qualche vento devastante. Invece non accadde. Nessun vento, bonaccia completa. Demmo piglio ai remi e vogando con tutte le forse ci allontanammo dall’isola.

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