Accanto alle poesie, alle “lettere piene d’amore” di Ungaretti, accanto ai diari di Stuparich, a quelle “vite di stenti, senza orizzonti”, possiamo immaginare il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, pubblicato da Adelphi (a cura di Paola Italia, con una nota di Eleonora Cardinale). In una nuova edizione arricchita da sei taccuini sconosciuti, 80 pagine inedite, e filologicamente inappuntabili, scritte in Germania nel 1918.

Che poi, più che un giornale vero e proprio, almeno per come lo intendiamo noi oggi, è un diario, un documento storico, pubblico e privato, visto che Gadda, raccontando la sua esperienza nella Prima guerra mondiale, scrive anche la sua prima opera.

Se non fosse, ormai, una frase fatta, un’espressione inflazionata, retorica, direi che questo è davvero uno di quei libri da far leggere a scuola, per aiutare gli studenti a mettere a fuoco un periodo complesso della nostra storia e non solo, per dare loro l’idea che la Storia non è e non sarà mai solamente una questione di date e di fatti, di cause e di effetti, ma anche, e soprattutto, di esseri umani.

Come scrive Paola Italia, il senso profondo di questo diario, che va dal 24 agosto 1915 alla fine del 1919, ha a che fare con Dante, con la (ri)lettura continua della Commedia: «Risiede qui l’intero senso dell’operazione del Giornale di guerra e di prigionia, e la potente urgenza narrativa che lo innerva: narrare significa testimoniare, trasformare la letteratura nello strumento “indefettibile” della verità, evocare non già una realta, ma la sua reminiscenza, il suo ricordo, un’esperienza che si faccia guida e mezzo di salvezza. Intento non diverso da quello del personaggio-poeta della Commedia, che narra rinnovando “nel pensier” la “paura” provata, e “l’altre cose...scorte” prima di trovarvi il “bene”».

Un diario che ricorda, in parte, lo Zibaldone leopardiano, in cui seguiamo i desideri, le paure, le insicurezze, i silenzi, i «borborigmi dell’anima», avrebbe detto Giorgio Manganelli, ma anche le colazioni, i pranzi, le cene, le bevute, la disfatta di Caporetto e la prigionia nella «baracca dei poeti» in provincia di Hannover, la morte del fratello Enrico, la nostalgia e la mancanza della madre Adele e della sorella Clara, che se non fosse stato per loro, per «il ricordo religioso della famiglia», si sarebbe cacciato contro un fucile.

Diario parallelo

Nelle prime righe, Gadda timidamente racconta a sé stesso che quelle che sta scrivendo sono note, «in buona copia», sì, ma pur sempre note, «come vien viene». Cerca di rassicurarsi, forse, sa, immagina che la scrittura sia un’attività complessa, faticosa, soprattutto quando si dorme poco, si marcia, si mangia e si beve tanto. Il cibo e il vino e il caffè, scrive, gli provocano una specie di «intorpidimento intellettuale».

Deve fare i conti con uno stomaco «pieno come un otre», con i mal di pancia frequenti, con la sua inquietudine, con la sensazione di non essere mai parte del gruppo, visto che partecipa, sì, ma non parla quasi mai, evita le discussioni perché cominciano sempre per motivi inutili.

Da una parte, lo consolano le lettere, il pensiero che da qualche parte nel mondo ci sia ancora la sua famiglia. Il “carissimo” fratello Enrico, soprattutto, per cui Gadda costruisce una sorta di diario parallelo. Quando lui si trova nel 5.° Reggimento Alpini, a Edolo, sappiamo che Enrico sta bene anche se è a corto di soldi, mentre il fratello è felice di essere diventato un aviatore, di essere apprezzato e riconosciuto da tutti, lui si trova prigioniero, con quindici gradi sotto lo zero, in un luogo «lacero e sudicioso». Il fatto che, come scrive Paola Italia, la patria e la famiglia rappresentino per lui un «binomio spirituale», si nota dalle parole a cui si affida nel racconto.

Se dopo la disfatta di Caporetto la patria, agli occhi di Gadda, appare «lacerata», dopo la notizia della morte di Enrico diventerà addirittura «desolata». «Enrico tu non eri il mio fratello, ma la parte migliore e più cara di me stesso», scrive, mentre sente di essere diventato quasi elettrico, di essere attraversato da “correnti di dolore fisico”, e vengono fuori alcune pagine che ricordano quelle del Roland Barthes di Dove lei non è.

E prima che la vita diventi «inutile», che somigli a quella «d’un automa sopravvissuto a sé stesso», prima che si renda conto di essere «capitato in un punto morto» della Storia, Gadda racconta il suo desiderio di riscatto, la voglia, il bisogno di mettersi in mostra. Davanti alla patria, «bestia porca», nonostante gli egoismi, l’inettitudine, la viltà, la delusione per tutti quegli italiani che l’hanno resa il teatro infernale dei loro «litigi personali».

Davanti ai soldati, ai suoi compagni, che a volte sono indolenti, lamentosi, pigri, sì, ma che sembrano più disposti, rispetto a lui, a vivere una vita di sacrifici, una «vita orizzontale», che li fa sentire «stanchi», «istupiditi». E soprattutto davanti a sé stesso, per cui il giornale si fa diario, diventa la forma più profonda e più complessa di autoanalisi. Gadda vorrebbe essere l’eroe della storia che sta raccontando, ma c’è sempre qualcosa che lo blocca, la sua gentilezza, la sua bontà, la sua sensibilità.

Fantasmi e menti primitive

Non gli mancano, scrive, le «doti intellettuali» di un ufficiale, la preparazione, la disciplina, però in fondo sa di non avere l’autorità, la severità, il coraggio di farsi ascoltare, di farsi capire dalle «menti primitive» che lo circondano, e questo non fa che aumentare, di giorno in giorno, le sue insicurezze.

Con il tempo, Gadda cerca di fare pace con se stesso, con i suoi fantasmi, si convince che l’unico fine che ha, ormai, è quello di «poter ricordare meglio di quanto non consentirebbe la sola memoria quei tratti della mia vita che più mi paiono degni d’attenzione».

E allora mentre altri partecipano attivamente sul campo di battaglia, destinati a finire sulle pagine dei libri di storia, Gadda scopre sé stesso, la sua natura, che quello «stratificarsi di diverse sabbie allo sbocco d’un fiume» che è la scrittura, in fondo, somiglia alla vita, e viceversa. E se da una parte la fine della guerra ha il sapore agrodolce di un’occasione mancata, dall’altra rappresenta l’inizio di una nuova vita, di un nuovo modo di essere e di guardare il mondo.

Tra le ansie, le angosce per la lontananza dei suoi familiari, la lettura di Leopardi, Manzoni, Dante, Baudelaire, Goethe, Heine, Tolstoj, la guerra che sembrava quasi una necessità e che ai suoi occhi, nel tempo, diventa “un pervertimento di alcuni valori” fondamentali, ci accorgiamo che il vero atto eroico, alla fine, non è altro che la scrittura, la testimonianza, il racconto, come un modo per fermare il tempo, per dare una voce, un volto, dei sentimenti alle persone, ai personaggi incontrati lungo il percorso, per restituire loro un po’ di umanità.  

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