Quante cose non vanno, ma le facciamo andare, finché non succede un imprevisto, magari una pandemia, che cancella le abitudini e ci costringe a capire una buona volta che quel che da sempre non va non possiamo continuare a far finta che vada! Mi riferisco a certe relazioni sociali, allo stato delle nostre conoscenze (tecniche, scientifiche, psicologiche, linguistiche, letterarie ecc.), all’idea che abbiamo di noi stessi, alle esigenze del lavoro, alla scuola…

Ecco, parliamo di scuola, cioè della formazione dei giovani, cosa che qualunque stato dovrebbe avere per obiettivo primario, e che nella mia vita è sempre stata una preoccupazione, vuoi perché nella scuola ho trovato fin da bambino un modo di essere vuoi perché ancora oggi nella scuola ho un posto.

La pandemia, lo sappiamo, ha tenuto a casa moltissimi giovani, dai piccoli agli adolescenti; praticamente tutta la nostra gioventù in poltrona, tutte le mattine. Didattica a distanza, un bel settenario più che allitterante, Dad, nel gergo, come fosse una vecchia amica, o il residuo di qualche avanguardia, o, per chi sa l’inglese, un papà. Sembrava una soluzione. E, in parte, lo è stata. Io stesso ne faccio uso quasi quotidiano, e qualcosa di buono ci trovo, devo ammetterlo.

La disperazione di una categoria

Meglio che niente, meglio che rischiare di prendermi il virus in un’aula. Non nascondo neppure che, consegnate a uno schermo, le mie lezioni (insegno a piccoli gruppi di universitari, che a loro volta se ne stanno chiusi nelle loro stanze) hanno guadagnato in efficienza. Bisognava, certo, abituare postura, sguardo e voce al nuovo contesto, e bisognava abituare gli studenti ad avvicinarsi con la mente, a forare il nuovo diaframma (manovra che, d’altra parte, non riesce sempre neppure quando il corpo è vicino e diaframmi pare che non ne esistano).

Abitudine raggiunta, la preparazione non ha subito danni ingenti. Io ho sempre detto quel che dovevo dire, e forse l’ho detto pure meglio, e i giovani hanno svolto la loro parte, magari con qualche mestizia, magari forzandosi a intervenire dall’invisibilità, ma l’hanno svolta, ponendo domande, presentando questioni, dialogando fra loro.

Detto questo, se mi metto nei panni di un professore di liceo italiano, sono ben consapevole degli aspetti negativi della Dad: o meglio, del negativo che la Dad ha la capacità di mostrarci. Da anni insegno all’università di Oxford, ma ho insegnato a lungo anch’io nel sistema scolastico italiano, come professore di materie letterarie in un liceo classico di Milano, e fino a che è stato possibile, ho girato in lungo e in largo per il paese, incontrando colleghi degli ambienti più vari.

So che cosa stanno affrontando. Non penso agli aspetti puramente sentimentali – la tristezza del confinamento, la nostalgia di tutti i gesti che sono rimasti fuori della porta, la sete d’improvvisazione, l’assenza di imprevisto… Penso, invece, alla disperazione della categoria; una disperazione strutturale, antica, che la frapposizione di uno schermo ha solo avuto la capacità di mettere in primo piano, come uno specchio mattutino.

Impotenza pedagogica

In questi mesi molti insegnanti si sono rivolti a me per un consiglio. Le domande ricorrenti erano: Che cosa racconto alle classi? Come le tengo a bada? Come svolgo il programma?

In quei banali interrogativi parla la tutt’altro che banale impotenza di un intero sistema pedagogico, che non è più in grado di consentire uno scambio fruttuoso tra insegnante e studente. Un consiglio da dare l’avevo, e l’ho ripetuto identico a questo e a quello: fai lavorare di più la classe. Ogni volta la reazione è stata un misto di sorpresa e sollievo. Non avevo detto niente di speciale – non per me, almeno – che questo principio lo osservo fin da quando insegnavo latino e greco al Manzoni di Milano.

La scuola deve cambiare. All’insegnante si continua a chiedere di comandare; allo studente di obbedire. Non può uscirne una buona formazione, se non per quei due o tre che saprebbero istruirsi anche da soli nel buio d’una cantina. Il rapporto padrone-servo deve essere il primo a saltare.

Sto usando, evidentemente, metafore crude, ingiuste per la sensibilità di alcuni, ma non falsificanti: la scuola continua a imporre fondamentalmente ruoli di potere e ad anteporre questi – per lunga tradizione – all’esercizio delle inclinazioni e dei talenti individuali. La sua natura, gira e rigira, rimane punitiva e negativa: se non studi, ti boccio, e valuto non quello che sai, ma quello che non sai.

Devono, perciò, mutare sia la funzione dell’insegnante sia il lavoro dello studente. L’insegnante è – se quegli interrogativi da tempo di Covid non sono, come credo, limitati a una critica della Dad – il primo a volerlo. Non ne può più di arrancare; di sentirsi inadeguato e, alla fine, inutile. La soluzione è semplice, ed è la più costruttiva: dare iniziativa allo studente.

Come? Mettendolo nelle condizioni di sentirsi artefice della sua istruzione. Basta mattinate di spiegazioni monologiche, in cui parla solo l’insegnante; basta interrogazioni a tappeto, che sviluppano solo sospetto reciproco; basta quella politica del beccare in castagna; basta la diffidenza. Occorre fiducia reciproca. Io insegnante confido che tu studente lavorerai al meglio; tu studente confidi che io possa aiutarti a svolgere il tuo lavoro ancor meglio.

Stupore e ammirazione

L’insegnante si assegni il puro e semplice ruolo di guida. Addestri anzitutto, con il suo esempio, alla curiosità, allo stupore, all’ammirazione; quindi, fornisca i rudimenti della materia, illumini le difficoltà, corregga gli errori, e la correzione sia non censoria ma dialettica. Del resto si occupi lo studente: agendo da solo o in gruppo.

Lo studio non è ripetizione di contenuti, ma consiste nella capacità sempre rinnovata di creare argomenti e di apprendere criticamente le rappresentazioni della realtà, e di manifestare il proprio pensiero con rigore e con chiarezza. Lo studio non è memorizzazione di un capitolo del manuale: ma lettura attiva dei testi, osservazione dei fenomeni, confronto dei punti di vista, dibattito, domanda continua, riflessione sull’esperienza.

Ecco la parola: esperienza. Gli studenti non ne fanno abbastanza. Non leggono abbastanza, né libri né articoli, non scrivono abbastanza. Questo, invece, dovrebbero fare: leggere e scrivere. Lì, nella lettura e nella scrittura, saranno pienamente liberi. L’istituzione, invece, li vuole ripetitivi, passivi, ossequienti. Per questo i più sono messi nelle condizioni di sentirsi estranei a tutto ciò che viene loro richiesto di fare. Vogliono altro, e hanno ragione.

Con i suoi riti la scuola non aiuta i dissidenti neppure a cercare alternative. Per cui, dicono “no” alla scuola senza necessariamente riuscire a dir “sì” a sé stessi. Uno spreco incalcolabile; un danno sociale di proporzioni titaniche.

Il problema dei programmi

I programmi… Sono un grande problema, e sono parte fondamentale del problema maggiore, perché proprio lo svolgimento dei programmi determina il rapporto insegnante-studente. Il liceo italiano li vuole vastissimi, enciclopedici, nozionistici, come ben rappresentano quegli stranissimi oggetti, più simili a centri commerciali che a libri, che sono i manuali. Ci trovi di tutto, tranne lo stimolo a pensare. Occorre selezione, invece. In fondo, servono solo nomi e date, senza i quali non si può avere un senso della storia, cioè della vita.

Per il resto, via, tagliare tagliare, e, una volta che si sia tagliato il tagliabile, approfondire. Si finirà per studiare molto di più, per capire molto di più, per conoscere molto di più, per immaginare molto di più. Il sapere è questo: sapere di poter sapere di più, e non inseguire un falso fantasma di esaustività. Inseguire, invece, la felicità della prossima scoperta, e condividerla con l’insegnante e con i compagni, mettendosi alla prova, senza pensare al voto, con la sola ansia di volersi fare capire il meglio possibile, con eleganza, con semplicità, con amore.

Torneremo in aula, e sarà bello e giusto. Che la Dad, però, ci stimoli intanto a tornarci – un pochino – rinnovati.

 

© Riproduzione riservata