L’esordio di Giulia Lombezzi in L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri) è fatto di notevole orecchio per i linguaggi e di un talento mimetico che rende credibile ogni parlante. Un bel romanzo che nel finale si arrende al modello del "patto tra donne” così in voga in questo momento. Come se la scrittrice avesse il compito di proteggere i propri personaggi dal male, invece che usarli per esplorare il male in tutte le sue declinazioni
“A Matteo, Pat e Fabian, senza i quali non” – già nella dedica è chiara la principale caratteristica della scrittura di Giulia Lombezzi in L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri): quando si dovrebbe completare con qualcosa di banale (qui, presumibilmente «sarei riuscita a scrivere questo libro», o simili) la Lombezzi preferisce soprassedere, taglia. Uno stile in levare, sobrio, sempre con un sottofondo di ironia; un lessico parlato, basso, metafore antiliriche («roba remissiva», «impila incombenze»); una vivacità antisentimentale anche per contenuti gravi («nonna era troppo occupata a morire per lasciargli istruzioni»).
Un notevole orecchio per i linguaggi, un talento mimetico che rende credibile ogni parlante: dallo spagnolo della badante sudamericana agli idioletti del liceo, sia da parte degli studenti («quella bagascia da lupanare della Graziosi«) che dei prof («non guardarmi come un Ilota dinnanzi a uno Spartiate, madamigella»); ognuno coi suoi tic e le sue smorfie esibizioniste.
Le sigle da Giovani Marmotte che ormai infestano le circolari ministeriali («No, non sono ADHD. E nemmeno DSA, o BES, o DVA»). Soprattutto Alice, la protagonista, è una sedicenne linguisticamente e culturalmente plausibilissima: nativa digitale, capace di cogliere la distanza già dai trentenni («Che io glielo dico, che su Twitch ho una madonna di amici, ma sai cosa mi risponde? Che sono amici virtuali, in un mondo virtuale. Come se ci fosse ancora una differenza»).
La lingua
Se ogni tanto usa parole che sembrano troppo colte per la sua età, l’autrice le giustifica («Dici stupidaggini, Alice è il sottotesto. Ce l’ha detto la prof di italiano, il sottotesto è quando si dice una cosa ma in realtà se ne intende un’altra. Come quando dici buongiorno e intendi vaffanculo. Mi sa che la mia vita è in gran parte un sottotesto»).
Intelligente più del normale, tanto da inventarsi parole inesistenti («Altruinstagram. Rappresenta quelli che soffrono un botto sui social, gli attuali trenta-cinquantenni, molti dei quali incurabili slacktivist. Hanno bisogno di dirlo a tutti, loro, che stanno in pena per il mondo»).
Di fronte a qualunque stereotipo retorico, le scatta il bisogno di rifargli il verso («Dal salotto, assieme al fumo di Nonno, esce la voce di Licia Colò. Un ecosistema complesso e tuttavia minacciato dall’intervento dell’uomo, sempre più letale per il futuro del pianeta»). Bersaglio dei suoi strali è spesso la sorella maggiore, anaffettiva di sinistra, che se l’è svignata da casa e quando torna le fa la morale – come quando perora contro le Rsa, tanto il nonno non deve spupazzarselo lei («si sta infervorando, forse pensa di essere a Propaganda Live»).
Una compagna che non può sopportare è la Margherita Longo, una di terza che «prima era vegana, ma poi continuava a svenire e allora è diventata femminista». Alice non è né bella né brutta e la sua amica Angiu scherza sul body shaming («di corpo sono un otto, ma di faccia un cinque meno»); non certo come la Jadia Yassine, «una bisessuale di quarta con la faccia di Zendaya e il corpo di Elodie». Classi multietniche, fluidità sessuale che non c’è bisogno di sottolinearla, semplicemente è.
Del sesso si parla molto ma se ne fa poco («Io, per adesso, ho fatto solo una sega in pullman al Pietro Sacchi quando eravamo in gita al Giardino dei Giusti»), alla prima fellatio Alice se la cava perché «ha visto dei tutorial». Anche i dati principali della trama vengono buttati lì en passant, il lettore deve stare attento a coglierli.
Il mondo di Alice
Pare di esserci, nel mondo di Alice. Il sasso nello stagno, dal punto di vista narrativo, è quando il nonno materno non più autosufficiente deve essere accolto in casa (famiglia composta solo da lei e dalla madre – il padre intellettuale, aspirante scrittore, da tempo non vive con loro). Sfila una serie buffa di badanti, equadoregne ucraine serbe, e anche un badante peruviano. Il nonno il maschio non lo vorrebbe, sull’equadoregna allunga le mani, alla furba serba regala dei soldi per vederla nuda; ma Alice stessa si ritrova a molestare il peruviano, già sposato al suo Paese a ventitré anni, che la respinge – così è costretta ad ammettere «ho fatto come il Nonno».
Sia chiaro, Alice crede nelle conquiste del femminismo e nella lotta contro il disastro ambientale; quando il nonno si giustifica dicendo che la badante era poco vestita, lei ovviamente fa notare che «la molestia non è mai, in nessun caso giustificabile con l’abbigliamento della persona che l’ha subita e che colpevolizzare lǝ vittimǝ equivale ancora una volta a alimentare una cultura patriarcale» – usa perfino lo schwa, ma la tirata le sembra troppo lunga e la tronca lì.
Fatto sta che il nonno è effettivamente odioso; una pettegola che frequentava la famiglia fin da quando sua mamma era piccola le rivela pian piano tutte le vessazioni e le percosse che il nonno ha inflitto negli anni alla moglie e alla figlia, costrette a subire. «Essere femmina fa una paura fottuta». Così nasce in lei il progetto di drogare di melatonina il nonno e soffocarlo semicosciente premendogli un cuscino in faccia, per “liberare” la madre.
Terribile progetto, rispetto al quale il lettore pensa che al nonno non è stato concesso il diritto alla difesa: fin che dice «se crepo è meglio per tutti» lo sentiamo come un prepotente che ora vuol fare la vittima, non ci commuove. Ma più avanti nel racconto, cioè più indietro nella storia, quando una professoressa gli raccomanda di far studiare la figlia molto dotata, che poi è la madre di Alice, e lui risponde «noialtri abbiamo da lavorare… si son fatti sacrifici», finalmente la parola vien data anche a lui.
L’autrice non cade nell’errore di costruire un personaggio unidimensionale, ha la serietà necessaria per scoprire un secondo livello, più profondo: il nonno in realtà è intimidito alla tesi di laurea della figlia, umiliato dal fatto che la relatrice non lo abbia nominato (lui, che «si è fatto un culo così») – poi, quando addirittura arriva la lettera della Normale di Pisa che annuncia alla ragazza di essere stata ammessa all’orale, è proprio geloso di quella Scuola sconosciuta che la figlia vorrebbe portargliela via.
Così strappa la lettera e fa credere alla ragazza di essere stata respinta. Ma anche Alice ha un doppio fondo: l’odio, diciamo così, ideologico per il patriarca violento e inconsapevole della propria violenza si tinge anch’esso di gelosia – è gelosa del nonno che le sta alienando l’amore della madre che prima era stato solo per lei. La madre è ora troppo presa da quel che crede essere il suo dovere, Alice non si sente più amata e mangia fino a diventare “bulimica” (così la chiama la madre parlando in viva voce al telefono col marito e Alice, sempre precisa, corregge mentalmente «si direbbe binge eater, se proprio vogliamo fare i language nazi… perché mi guardo bene dal vomitare, io»).
Tutto è pronto, perfetto per un salto tragico: gli antagonisti hanno squadernato la loro anima, il contesto mondiale non dà luogo ad alcuna speranza né ad alcuna verità («se deve ucciderci Putin, tanto vale fumare»; «l’apocalissi è a due passi, ma poi non arriva»). Qui il lettore (io, almeno) si aspetterebbe che il nonnicidio avvenisse davvero e il romanzo reclamasse spessore; in questo sono rimasto deluso, Alice ci prova a premere il cuscino ma non ha la forza sufficiente, o non abbastanza convinzione – il nonno resta a terra svenuto e quando rinviene ha la testa talmente confusa che non riesce ad accusare nessuno.
L’episodio della Normale viene utilizzato solo dopo e serve a convincere la madre che può, anzi deve, abbandonare un padre così; alla fine il nonno finisce affidato al padre (maschi tossici), che certo lo metterà in un ricovero. In una chiusura a rondò, madre e figlia se ne andranno al mare, nella Liguria mare dei milanesi, e i piedi materni artiglieranno le pietruzze della battigia che calpestavano all’inizio.
Chiusura che (benché il titolo voglia farci credere che la vera uccisione è quella simbolica) sa di inconcludenza e di resa al modello del "patto tra donne” così in voga in questo momento. Come se la scrittrice avesse il compito di proteggere i propri personaggi dal male, invece che usarli per esplorare il male in tutte le sue declinazioni.
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