Dio è morto? È vivo? O si è trasferito su Facebook? Mentre la digitalizzazione forzata dalla pandemia ristruttura processi produttivi e stili di vita, con impatti a medio e lungo termine di non facile previsione, appare sempre più difficile trovare sfere del nostro vivere insieme capaci di isolarsi dall’onda che ormai avanza con una velocità inarrestabile.

Durante la prima ondata della pandemia in molti paesi chiudevano i luoghi di culto, c’era chi ipotizzava di poterli sostituire con le riunioni a distanza, così come c’era chi sognava di poter chiudere per sempre gli uffici e i luoghi di lavoro, destrutturare le comunità e i luoghi della produzione per regalare l’emancipazione definitiva ai telelavoranti rinchiusi nelle loro comode case di provincia.

La questione deve essere apparsa subito immediatamente seria se è stato papa Francesco in prima persona, ad aprile 2020, a lanciare un pesante monito contro il rischio di una fede gnostica, vissuta in streaming e senza contatti reali, una chiesa che così «non è chiesa» perché viene meno la dimensione intima della familiarità con la comunità e con la divinità.

Le parole del papa erano senza appello: «Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il pane, una familiarità senza la chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa. Può diventare una familiarità - diciamo - gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il Sacramento, con il pane».

Un grido inascoltato

Tuttavia, il grido d’allarme del pontefice sembra essere passato inosservato. Facebook, che da tempo segue con particolare attenzione i gruppi religiosi, a dicembre 2020 ha cominciato i test di nuovi strumenti e alcune comunità religiose hanno accolto con entusiasmo la disponibilità dell’azienda californiana. È questo il caso di numerose megachurch statunitensi, come la First Baptist Church di Dallas in Texas. Altri, pur apprezzando la possibilità di restare connessi con la propria comunità, contestano l’“autenticità” di un’esperienza religiosa mediata dai social media.

Un articolo del New York Times pubblicato a fine luglio ha riportato la notizia della partnership di Facebook con la Hillsong Church di Atlanta. Nell’accordo di cooperazione sarebbe previsto di utilizzare l’esperienza della Hillsong Church come test per verificare fin dove sia possibile spingere l’esperienza di una religione digitalizzata mediata dai social media.

Sam Collier, pastore della chiesa di Atlanta, ha confermato gli incontri, ormai settimanali, con il team di sviluppatori di Facebook: «Loro ci insegnano qualcosa e noi insegniamo qualcosa a loro. Insieme stiamo provando a scoprire quale potrà essere il futuro della chiesa su Facebook». Come ha scritto Elizabeth Dias, quello che Facebook sta tentando è un vero e proprio ripensamento dell’esperienza religiosa così come è già avvenuto per quelle politiche e sociali. A giugno 2021 Facebook ha organizzato anche un Virtual Faith Summit per illustrare le soluzioni pensate per le necessità dei gruppi religiosi. Nel contesto dell’evento numerosi esponenti di diversi gruppi religiosi hanno avuto modo di illustrare le potenzialità di Facebook applicato alla loro esperienza.

“Prosperity gospel”

Così la liturgia diventa il live streaming, le offerte dei fedeli una sofisticata campagna di fundraising digitale e il proselitismo un’aggressiva strategia di marketing online. Alcune chiese, come la Church of God in Christ, hanno cominciato a testare servizi che permettono di sottoscrivere abbonamenti esclusivi per 9,99 dollari al mese in cambio di contenuti esclusivi, messaggi dal vescovo e la possibilità di effettuare donazioni e seguire le funzioni religiose online. Per oltre dieci anni ho esplorato alcune megachurch statunitensi partecipando ai loro eventi dal vivo. Il movimento era già pienamente esploso e l’effetto di straniamento per un italiano, meridionale e di provincia, impressionante. Era già allora evidente la diffusione di forme di religiosità egemonizzate da un forte antropocentrismo religioso dove il fulcro dell’esperienza religiosa era, prima di tutto, il benessere psico-fisico di chi partecipava agli eventi in un ripensamento paradigmatico di ciò che per molto tempo abbiamo conosciuto, nella nostra cultura, come religione.

Era l’inizio dell’onda lunga del “prosperity gospel”. Come ha sottolineato Padre Antonio Spadaro SJ, il rischio insito nella diffusione delle correnti che fanno riferimento al “prosperity gospel” è quello di «trasformare Dio in un potere al nostro servizio, la chiesa in un supermarket della fede e la religione in un fenomeno utilitaristico che è eminentemente sensazionalistico e pragmatico».

Alcuni studiosi, come il sociologo Paul Mcclure della Baylor University, hanno già sottolineato nei loro lavori quanto a un’utilizzazione frequente di internet sia associato un «nomadismo religioso» che porta i fedeli a creare una fede frutto di un bricolage personalizzato al di fuori dei confini delle religioni istituzionali. Il mezzo, dunque, influenza in maniera decisiva il messaggio.

Questo aspetto deve essere ben noto agli sviluppatori di Facebook che, dopo aver egemonizzato discorsi politici e sociali, puntano anche a quelli religiosi. Un modo di veicolare la fede che può ancora sembrarci alieno, ma che nel mondo della globalizzazione religiosa e delle megachurch può essere foriero di successi numerici importanti. La digitalizzazione è infatti la chiave di volta definitiva per la dissociazione del mercato religioso da quello culturale. Il religioso può così circolare globalmente libero dai vincoli del radicamento. Per Olivier Roy, un modello perfetto per la diffusione dei fondamentalismi. Su questo il ruolo dei social media nel contesto politico ci ha già insegnato qualcosa. Non ci resta che trarne qualche insegnamento.

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