Il nostro cibo, la nostra dimora. Così recita uno dei versi finali della poesia «all’alba il dolore è stanco» dalla penna del poeta, saggista, scrittore Tahar Ben Jelloun. Qui il cibo assume l’architettura del rifugio. Una richiesta d’asilo al piatto. La nostalgia della propria terra naturalmente si accosta al richiamo della tavola e ciò avviene anche per la cucina italiana all’estero: resa mito a volte da storie di piccoli borghi che rivivono densità demografiche ben più elevate di quanto non avvenga invece nelle stesse cittadine italiane, abbandonate alla ricerca di una vita migliore.

Eppure, mentre l’uomo o meglio il piatto, diventa leggenda non riconoscendo più quale sia la vera essenza di una carbonara – per esempio – coinvolta dalle abitudini e dai sapori di paesi che per fortuna si sfiorano anche in cucina, c’è chi dall’estero il rifugio lo cerca nelle proprie terre. Tornando a una casa che non si è mai avuta ma che si è sentita raccontata nel piatto come una storia.

Ritorni

Così cibo e tradizione in cucina mantengono vive le usanze di intere generazioni, tanto che a volte alcuni scelgono di cambiare radicalmente vita, magari producendo qualcosa di prezioso ma anche di nuovo. È la storia di Giulio Steiger e Margarita Cherubini Steiger che in Molise, a Casacalenda, conducono ormai da diversi anni una vita dedita alla propria azienda – Steiger Kalena – e alla famiglia. Una decisione presa dopo aver vissuto oltre dieci anni in Francia impegnati in lavori totalmente diversi, essersi incontrati a Parigi nel 2008 e aver scelto di rientrare in Italia nel 2013.

L’azienda, nata per volontà della coppia, è poi stata aperta ufficialmente nel 2015. Ma Giulio Casacalenda l’ha scelta nel ricordo della sua infanzia molisana, quando assisteva al servizio frenetico di piatti che andavano e venivano nel ristorante dei nonni a Portocannone. E ancora, per i fermoimmagine di quegli uomini che al bar litigavano aspramente per una partita a carte, incredulo da bambino che qualcuno potesse adirarsi tanto per un gioco. Era la passatella, conosciuta in tutto il mondo tra gli emigrati che ha poi dato il nome a una delle etichette dell’azienda, un vino sincero pensato per momenti calorosi.

Il vino restituito

Perché il vino anche se non lo si è mai prodotto? Per restituire alla comunità qualcosa di diverso, per non percorrere la stessa strada della sua famiglia, ma abitare il presente con consapevolezze nuove, incontrando le proprie inclinazioni. Questa è la magia delle connessioni tra passato, presente e futuro, che solo la memoria di alcune istantanee personali possono poi trasformare in veri e propri cambi di rotta. Come tornare in una terra che ti ha accolto da piccolo e che hai lasciato, o ancora di accogliere nel proprio quotidiano un ritmo meno frenetico, attento al contatto con la natura raccolta dei piccoli paesini di provincia. La linea che disegna il cerchio tra dentro e fuori i confini, sono poi le analogie di alcuni piatti italiani con alcuni esteri, capaci di produrre la suggestione di una memoria antica attraverso sapori simili.

Lo racconta Margarita quando paragona alcuni piatti italiani ai sapori di altri venezuelani: così il primo sale di pecora salato diventa il queso rallado o ancora le ostie ripiene di Agnone, le oblea con arequipe. Non mancano altre analogie, come il casatiello napoletano con il pan de jamón e il pasticcio ferrarese con la polvorosa de pollo (dove i sapori sono simili, non la consistenza). Quale che sia la funzione del cibo all’estero, come del vino, il rapporto che questi prodotti creano tra le persone e le proprie terre di origine è un vincolo sacro. Un filo teso da qualsiasi latitudine lo si voglia tirare, in pratica, un linguaggio universale che dice a chiunque sia lontano da casa, bentornato.

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