«Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lusingato», disse una volta Federico Fellini. Che aggettivo in effetti lo era diventato, e lo è rimasto: felliniano è un termine che si ritrova pure su Treccani. «Cosa intendano gli americani con “felliniano” posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco: fregnacciaro è il termine giusto», aveva continuato. 

Aveva ragione: felliniano è il termine di riferimento per quella cinematografia che si mostra imponente e caricaturale, che inserisce elementi legati al sogno, al circo, a una qualche narrazione dell’esistenza che è malinconica e divertita allo stesso tempo. Termine azzeccato, a volte abusato: in questo senso, è l’equivalente cinematografico di “kafkiano”. 

Sono passati trent’anni da quando il maestro, nato a Rimini sotto il segno del Capricorno («ma a un quarto d’ora dal segno dell’Aquario, ho i difetti di entrambi i segni»), è morto all’ospedale Umberto I di Roma. La lunghissima coda di personalità del cinema e della politica che hanno sfilato per rendergli omaggio alla camera ardente allestita presso il suo amato Teatro Cinque di Cinecittà è stata ripresa nel documentario che gli ha dedicato l’amico Ettore Scola, Che strano chiamarsi Federico. Se è strano chiamarsi Federico, ancora più strano oggi, per le cineaste che appartengono a un’altra generazione, è essere felliniane.

Volti umani e caricaturali

In un contesto lavorativo Carolina Cavalli, ad esempio, non ha mai usato il termine felliniano. Regista e sceneggiatrice poco più che trentenne, il suo lungometraggio d’esordio, Amanda, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ed è stato selezionato nella Critics’ Pick del New York Times. 

«Per me ha semplicemente il significato di qualcosa di relativo a Fellini o al suo lavoro, quindi non la utilizzerei per raccontare il lavoro di qualcuno che non è lui», ha detto a Domani. Se personalmente non ne ha mai abusato, Cavalli riconosce però come possa essere utilizzato nella vita comune: «Ho un amico che definirei felliniano, per questo non andiamo sempre d'accordo», ha spiegato. «Oppure ci sono dei volti che mi colpiscono particolarmente che definirei felliniani, li descriverei come estremamente umani e allo stesso tempo caricaturali».

Rimane quindi un’aura intorno alla parola, che va oltre l’aspetto puramente cinematografico: «Se qualcuno mi dicesse che ha passato una notte felliniana, credo che potrei immaginarmela ed esserne sicuramente curiosa». Fermo restando però, che il confronto con l’originale sarebbe per lei impietoso: in questo senso, sì, l’aggettivo felliniano promette quello che non mantiene e si svuota di significato.

Fuori dalle categorie

«Felliniano, per noi autori, vuol dire darsi il monito di scrivere cercando una propria visione», ha raccontato invece Elisa Dondi, sceneggiatrice. Ha scritto, insieme alla regista Laura Samani e a Marco Borromeo, Piccolo corpo, presentato alla Settimana internazionale della critica nell’edizione 2021 del Festival di Cannes, e vincitore del David di Donatello per la miglior regia esordiente.

Per Dondi, felliniano è pensare fuori dalle categorie. Il cinema di oggi, ha osservato, sempre di più chiede a un titolo di inserirsi in determinate caselle, per facilitarne la produzione e soprattutto la commercializzazione. Il regista di Otto e ½ si inseriva in un contesto vivissimo. Cinecittà rinasceva dopo la guerra, l’invenzione era ovunque: adesso, dentro un’offerta vasta che rimbalza tra le sale e i servizi on demand, lungometraggi e serie televisive, il rischio è che le produzioni si orientino di più al mantenere piuttosto che all’innovare.

«La voce di Fellini è unica, come quella di Andrej Tarkovski. Sono registi che rompono ogni schema», ha detto Dondi. Il cinema di Fellini per una sceneggiatrice come lei è un incoraggiamento a non scrivere pensando solo a quello che funziona, in termini di vendite, ma a «cercare un proprio sguardo, anche piccolo. Qualcosa che ti ricordi che in fondo, stai facendo arte».

Il film di Fellini a cui è Dondi è più legata è La dolce vita. La prima volta che l’ha visto è stato al Centro sperimentale di cinematografia, dove è arrivata senza aver fatto studi specifici: veniva da psicologia. Nella Dolce vita lei e i suoi colleghi, agli inizi della carriera, hanno ritrovato, in piccolo e con le differenze del caso, il mondo in cui stavano entrando. Con le sue contraddizioni, e la mancanza della parola fine. 

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