Un nonno ricorda la Liberazione, avvenuta quando era dodicenne, senza tralasciare le scene più cruente. È uno dei diari custoditi dall’Archivio di Santo Stefano e appena pubblicati nel libro “Liberazione quotidiana”
Il libro “Liberazione quotidiana” è uscito in libreria il 15 aprile, a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi ed edito da Succedeoggi Libri. Raccoglie i ricordi di persone comuni testimoni del 25 aprile 1945, dai diari custoditi dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, la “casa della memoria privata” fondata nel 1984 da Saverio Tutino.
Questo racconto è stato scritto da Ennio Nozza, che rievoca da anziano le sue memorie di dodicenne nei giorni della Liberazione di Milano. «Sono un felice nonno. Non ho mai scritto niente di interessante e l’attuale “lavoro” è stato da me scritto solo perché i bambini di oggi sappiano certe verità che non dovranno mai vivere».
E venne il 25 Aprile, giorno della liberazione. Quel mattino, come al solito, ero andato a scuola in anticipo per poter entrare in mensa senza fare code lunghe. Con alcuni miei compagni si era in fila in attesa di entrare alla mensa. Quando giunse, trafelato in bicicletta il papà di uno dei miei compagni. «Meno male che ti ho trovato», disse, «salta su», indicando la canna della bicicletta, «andiamo a casa». E poi, rivolto a noi, ci disse: «Figliuoli, correte subito a casa. Alla Pirelli e alla Breda ci sono i partigiani, c’è la guerra civile, filate finché siete ancora in tempo».
Sorpresi, ci guardammo, non eravamo al corrente di quello che stava succedendo attorno a noi. Non sapevamo cosa fare.
Ci avviamo verso l’ingresso della scuola, dove vedevamo che si stava radunando diversa gente. Ormai non pensavo più al mangiare. Sentivo nell’aria che c’era qualcosa di nuovo. Vedevo passare autocarri carichi di militi che andavano verso il nord della città. Non potevo immaginare che era incominciata l’ultima battaglia per la libertà. In quella apparve sul portone il preside della scuola, mentre il bidello dietro di lui ne richiudeva i battenti. Alzando la voce affinché potesse essere sentito da tutti, ci invitò ad entrare nella scuola. Stare fuori era pericoloso.
Titubanti io ed i miei compagni eravamo indecisi sul da farsi quando sentimmo non tanto lontano dei colpi di arma da fuoco. Sparavano. Fu un attimo.
Strinsi al petto la mia cartella e via di corsa verso casa. Mentre correvo a perdifiato, notai che i negozi chiudevano le saracinesche. I portoni delle case venivano chiusi. La gente correva. Questa volta, pensai, deve trattarsi di una cosa seria. Arrivai a casa trafelato. Salimmo tutti in casa e chiudemmo le imposte in attesa degli eventi che stavano maturando. Ben presto sentimmo degli spari che venivano da diversi punti della città. Macchine che transitavano veloci. Cominciarono a farsi vedere i partigiani. Erano vestiti con una divisa color kaki e portavano al collo un fazzoletto rosso, quasi tutti avevano una lunga barba e erano armati fino ai denti.
I bottoni bianchi
Ben presto il popolo uscì per le strade gioioso e festoso. Si voleva spazzare via il fardello della guerra. Tutto ciò che faceva riferimento al partito fascista fu distrutto. Bandiere rosse dappertutto. Si arrivò fino all’assurdo. Mi capitò di vedere gente che aveva attaccato bottoni bianchi alla camicia nera, ovviamente per poterla utilizzare. In fondo non si può dimenticare la miseria che circolava. Una camicia era sempre una camicia, anche se nera. Però ora, avendo i bottoni bianchi, anche se nero, non era più l’emblema del passato regime, ma un normale capo di abbigliamento, si può pensare che alcuni avessero solo quella.
Si sparse la voce, presto confermata, che i partigiani avevano fucilato il Duce, la Petacci, sua amante, ed alcuni dei suoi gerarchi. Li avevano portati in piazzale Loreto e li avevano appesi ai pali della luce, nello stesso posto dove i fascisti, non molto tempo addietro, avevano fucilato per rappresaglia alcuni partigiani. Tra questi ci fu anche il papà di una nostra compagna. Tutti andarono a vedere quel macabro spettacolo, avrei voluto andare anch’io, ma la mamma me lo vietò nel modo più assoluto.
Ebbero inizio le vendette politiche e quelle personali. Chi era riconosciuto fascista, veniva insultato e malmenato. Constatai con piacere che al fornaio, quello che ci denunciò per la torta di zucca, avevano sfondato a sassate la saracinesca del negozio ed imbrattato tutta la vetrina o quello che era rimasto con dello sterco e con il gesso scritto a grandi caratteri «fascista di merda». Mi narrarono anche di un caso veramente unico. Molti anni prima della guerra i fascisti avevano l’abitudine di fare bere ai loro nemici politici dell’olio di ricino. Bene, una di queste vittime aveva gelosamente custodito in tutti questi anni in un vaso a chiusura ermetica il frutto dell’olio che gli avevano fatto bere. Conosceva bene chi era stato il suo carnefice e venne il giorno della vendetta. Lo cercò, lo trovò e gli fece ingoiare il contenuto del vaso.
Teste rasate
Un giorno, vidi un corteo di donne scortate da partigiani armati, queste disgraziate avevano la testa completamente rapata a zero e verniciata di rosso. Tutte le schernivano e le beffeggiavano. Erano delle ausiliarie repubblichine, mi fecero tanta pena.
Nella mia vecchia scuola elementare si era installato un comando partigiano. Il mio balcone era diventato il mio posto di osservazione. Potevo controllare i movimenti delle persone, distinguevo benissimo chi entrava e chi usciva dalla scuola. Un giorno vidi uscire il maestro Noè. Portava al braccio una fascia tricolore con la sigla C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale): dunque anche lui faceva parte della resistenza.
Davanti alla scuola c’era un vespasiano. Sdraiato sul tetto, un partigiano se ne stava lì tutto il giorno, armato di mitragliatrice, ogni tanto, chissà per quale imminente minaccia di attacchi fascisti puntava il mitragliatore ora a destra ora a sinistra. Ridendo tra me pensai che l’avessero messo lì a guardia del cesso.
Vennero anche fucilati dei fascisti davanti al muro dell’Oratorio, malgrado le reiterate proteste di Don Eugenio. Ci fu tra i partigiani chi gli rispose che se non stava zitto l’avrebbero messo anche lui al muro. Indubbiamente non sapeva chi era don Eugenio, un sacerdote che diceva sempre quello che c’era da dire senza guardare in faccia a nessuno.
Tutte le case fecero a gara ad organizzare nei cortili, feste danzanti all’aperto, festoni colorati venivano stesi tra i balconi e le ringhiere, palloncini colorati veneziani, quelli con dentro la candela erano appesi alle finestre, bandiere rosse e tricolori messe dappertutto. Noi ragazzini venivamo ingaggiati a suon di gazzose e caramelle a fare funzionare grammofoni e cambiare i dischi.
Gli americani
Arrivarono gli americani, una festa per tutti. Ogni tanto arrivava qualche camion, si fermava al centro della piazzetta e distribuiva gratuitamente generi alimentari. A noi ragazzi davano le cicche americane, cioè la gomma da masticare. Una assoluta novità per noi. Ai più grandicelli regalavano le sigarette.
Scoprii per caso un’altra novità assoluta. Mi sono sempre piaciuti i mezzi a motore e questi grossi camion americani mi incuriosivano. Tanto diversi da quelli che ero abituato a vedere. Mi piaceva girargli intorno, guardare sotto, sbirciare nella cabina. Seduto sul parafango stava seduto un soldato americano che mi fece un saluto con la mano. Era uno spilungone, alto e magro ed era nero di pelle. Non avevo mai visto un negro e mi fece impressione: non che fosse brutto, ma vedevo che era diverso, aveva le labbra molto grosse ed il naso schiacciato e il bianco degli occhi non era bianco ma giallo. Stava bevendo direttamente dalla bottiglia che teneva in mano. Lo guardai incuriosito, scese dal camion e si avvicinò a me. Gli arrivavo sì e no poco più su della cintola.
Allungò la sua manona nella cabina del camion e prese una bottiglia simile a quella che stava bevendo. Fece saltare il tappo metallico che la chiudeva e me la offerse facendo il gesto di bere.
La presi, mi sentivo a disagio. Il contenuto era un liquido scuro e dalle bollicine che faceva mi sembrava molto gasato. Mi invitò con un simpatico sorriso a bere. Più per cortesia che per gola ingurgitai un sorso di quella roba. Buona, ma accidenti, se era gasata. Mi ritornarono le bollicine su per il naso pizzicando fino a farmi piangere gli occhi. Sempre ridendo il soldato americano mi fece capire a gesti che dovevo bere piano piano e ci riprovai. Veramente buona, quella bibita mi piaceva, aveva un sapore che non conoscevo. Molto più dolce e saporita della nostra gazzosa. Gli risposi con un sorriso e lo ringraziai, avevo bevuto per la prima volta la Coca Cola.
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