A un prodotto spagnolo da piattaforma non accadeva niente di simile dai tempi mitici de La casa di carta. Il fenomeno Los años nuevos, da noi Dieci Capodanni, è un caso di attrazione fatale, un nuovo culto totalizzante e miracolosamente intergenerazionale. Ed è proprio questo sottrarsi alle categorie del sentimento tarato sui young adults a decretare l’unicità di una love story che segue il percorso di vita di una donna e di un uomo dai trenta ai quarant’anni.

Si parla di millennial, Madrid, Berlino e Lione sono quelle segnate dagli eventi dal 2016 a oggi, ma non c’è boomer che non partecipi con tutta l’anima alla narrazione. Magari riconoscendoci – è solo il sistema di riferimenti a fare la differenza – le viscerali profondità bergmaniane di Scene da un matrimonio, piegate a una freschezza di dialogo che sembra allergica ai copioni scritti. De te fabula narratur, a prescindere dall’anagrafe.

Chi giura sulla fossilizzazione delle piattaforme, sul loro capolinea, ha perso il vizio della speranza, come nel salutare rimprovero che Ana, la travolgente Iria del Rio del film – una Debra Winger ispanica che merita la stessa gloria della sua omologa hollywoodiana se non di più  – muove al suo Oscar.

Due giorni l’anno, il 31 dicembre e il 1° gennaio, per dieci volte e per dieci episodi. Non è una struttura inedita. One Day, lacrimevolissimo romance duplicato dal grande al piccolo schermo, sfruttava la stessa cadenza episodica, per non parlare di Dieci inverni, delicato e sottovalutato affresco di Valerio Mieli su cui è stato ricalcato il titolo italiano di Los años nuevos.

C’è da rendere omaggio al fiuto della Mostra veneziana di Alberto Barbera, che aveva valorizzato questo straordinario lavoro di Rodrigo Sorogoyen nell’aurea sezione dedicata alle serie d’autore. Sorogoyen si è imposto definitivamente nel 2023 col premiatissimo As Bestas, ma nel delirio delle giornate veneziane era una Cenerentola. Pochi hanno avuto il tempo di regalarsi da binge watcher i 500 minuti di Los años nuevos su grande schermo. Il boom su RaiPlay, che ha il pregio non secondario di essere gratuita, è una rivincita con gli interessi.

Un amore iperrealista

Intorno a Dieci Capodanni sono fioriti gruppi d’ascolto che neanche Sanremo, è il must che ingorga i social e monopolizza le chiacchiere a cena. Perché c’è un mistero da decifrare: qual è il fattore X che scava un abisso tra questo un homme, une femme del Terzo Millennio e tutta la fuffa che l’algoritmo ci passa, i romanzetti in fotocopia, le passioni turche (con seguito sostanzioso in Italia, ho scoperto) e non vorrei dire ma dico le sbrodolate e incolori fiction nostrane?

Perché Arte France si espone per una soap spagnola prodotta da Caballo Films e Movistar che terremota gli occhi e i proverbiali precordi? I fattori X sono tanti, ma in ordine gerarchico piazzerei in testa quel tipo di sesso autentico che il cinema non ti restituisce mai. Non è la prima cosa a sedurti, ma la scopata iniziale la vivi, la godi, è erotica e tenera, una sorpresa assoluta.

Il passaparola che mi ha illuminato sul titolo per me è partito da uno sceneggiatore (anche di serie) che stimo parecchio, Nicola Guaglianone. Lui dice «che non è il solito intermezzo estetico, quella cosa che infili, come faceva Bukowski, per vendere i racconti». «Qui il sesso è narrativo, evolutivo. Racconta la storia della coppia meglio di mille battute brillanti. L’amore cambia? Si vede da come si guardano, da come si sfiorano, da quanto si desiderano e da quanto invece fanno finta. Ero convinto», dice, «che solo un regista sapesse girare scene di sesso con questa consapevolezza, e quel regista era Bertolucci. Ma Sorogoyen – con le sue co-autrici Sara Cano e Paula Fabra – ha dimostrato che si può ancora fare cinema con il corpo, con il desiderio, con la vulnerabilità. E senza mai scadere nel porno patinato o nel pudore da oratorio».

Qui però le gerarchie si confondono. Perché devi avere un paio d’attori come Iria del Rio e Francesco Carril, capaci di camminare sul filo di lana dell’improvvisazione, che improvvisazione non è ma ne è la riproduzione ipnotica. Non riesco a immaginare attori italiani capaci di tanto, in termini di esposizione fisica ed emotiva.

Il mio amico Guaglianone mi ha convinto a visitare RaiPlay con un paradosso: «È una serie che funziona perché non dovrebbe funzionare». Vale a dire che si spoglia di tutti gli ammiccamenti, che non coccola lo spettatore e non gli facilita il compito con le scorciatoie narrative. È l’iperrealismo dei tempi morti, l’imperfezione di una educazione sentimentale che non procede mai sui binari giusti, deraglia, inciampa, sciupa le buone occasioni e nega ogni certezza di appagamento.

Precari for ever, con sentimento

Il leit motiv è la precarietà, esistenziale, amorosa, logistica, e in questo senso Dieci Capodanni cattura l’ultimo decennio con una fedeltà disarmante e un minimalismo da grande letteratura.

La casualità dell’incontro la notte del Capodanno 2016 tra due trentenni nati a distanza di poche ore (Oscar, medico in prova a un pronto soccorso, la notte del 31, Ana, cameriera di pub, all’alba del 1° gennaio) obbedisce alle banali leggi dell’attrazione. È un classico hook up, un rimorchio, addirittura di ripiego e senza futuro, con la scatenata vitalità di lei che programma un trasloco in Canada e la prudenza di lui che lo inchioda al posto e a una fidanzata scostante.

Ma da quel momento in poi nessuna convenzione sarà più rispettata. A ogni incontro, o non incontro, la suggestione è quella del cinema-verità, l’illusione di quella quotidianità registrata senza filtri con i metodi sperimentali di Richard Linklater per la sua saga Prima dell’alba. Vogliamo cercare un altro fattore X? Il montaggio di Alberto Del Campo è così portentoso da trasmetterti l’effetto di un incessante piano-sequenza.

Cosa possibile solo perché dalle 48 ore rituali i grandi eventi – le morti, le nascite, i cambi drastici di patria e lavoro – restano programmaticamente fuori. Cosa è cambiato per Ana e Oscar, dentro di loro e tra loro, lo evinci da sfumature, dettagli, gesti che contano molto e parole che contano poco, distanze colmate e intimità che allontanano.

Nient’altro che un kammerspiel, allora, condito con l’interazione tra amici, genitori, vecchi e nuovi amori rispettivi? Mai più. La sorpresa è sempre in agguato: una vacanza a Berlino regala una formidabile sequenza alcolica e lisergica di sballo in discoteca, con tanto di evocazioni kubrikiane. La musica conta tanto, unisce o divide. Unisce Ana e Oscar al primo incontro, nel segno di Nacho Vegas, che conferma il primo giudizio azzardato da lei sullo sconosciuto: «Sei triste!». Ma pullula di autori ispanici, Rodrigo Cuevas, Gabo Ferro, Ivan Ferreiro, Silvia Perez Cruz, per citarne solo qualcuno. Da notare, a beneficio dei nostri fabbricanti di immagini: non c’è bisogno di usare per forza le hit made in Usa.

Il vero, non illusorio, magistrale piano sequenza arriverà davvero, nel finale che forse non è un finale e nell’happy ending che certo non è quello delle fiabe che prescrivono l’eternità, happily ever after. Ma come ha detto Ana a Oscar in una tipologia di messaggistica registrata che farà moda tra gli young adult di tutte le età, «è la speranza che fa succedere le cose».

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