Una ragazza messa incinta da una Cadillac non si era mai vista prima di “Titane", il film di Julia Ducournau che ha vinto al Festival di Cannes. «È genio e follia», ha aggiunto Spike Lee. E così il primo presidente nero della Croisette ha decretato il trionfo della seconda regista donna in 74 edizioni, 28 anni dopo Jane Campion per “Lezioni di piano” (1993), ed era così impaziente di dare l’annuncio da farselo sfuggire a inizio cerimonia con un clamoroso spoiler.

È una Palma d’oro sovversiva, come piace a Spike, per più di una ragione. “Titane” è un film volutamente disturbante definito “body horror”, amato dai cinefili duri e puri tanto quanto stroncato e fischiato da altri: la protagonista, sopravvissuta da bambina a un incidente grazie a un innesto di titanio nella testa, diventa una ballerina con la passione fetish per le auto ma anche un’assassina seriale. Rimasta incinta “facendo sesso” con la Cadillac, decide di depistare la polizia sfigurandosi e spacciandosi per un ragazzino scomparso dieci anni prima che il padre pompiere (Vincent Lindon), mai rassegnato, sta ancora cercando.

È così straziato da crederle contro ogni evidenza fino a vederle partorire uno strano esserino, uscito da un liquido nero più simile a pece che a placenta. «So che il mio film non è perfetto, qualcuno dice sia mostruoso, ma ringrazio questa giuria inclusiva per aver accolto i mostri», ha commentato la 37enne regista francese che, figlia di medici, aveva portato il corpo al centro di un altro film spiazzante, “Raw – Una cruda verità” (2016), dove una vegetariana scopre le gioie del cannibalismo. «La trasformazione e la fluidità di genere non sono un pamphlet politico, per me, ma il modo in cui vedo il mondo. E la mostruosità è un’arma per spostare i muri della normalità».

Il goffo 007 di Bedos

Per ironia della sorte, la cerimonia che ha premiato l’autorialità femminile e il gender fluid è stata seguita da un film che dissacra proprio il politicamente corretto: è la parodia francese di James Bond che ha chiuso il festival fuori concorso. “Agente speciale 117 al servizio della Repubblica – Allarme rosso in Africa nera” di Nicolas Bedos vede Jean Dujardin, premio Oscar per “The Artist”, scimmiottare Sean Connery con il ruolo di uno 007 pasticcione e donnaiolo.

L’agente Hubert viene spedito in Africa, nel 1981, a vigilare sulle elezioni truccate di un dittatore filo-francese minacciato dai ribelli proprio mentre in patria il “comunista” Mitterrand potrebbe “portare il paese alla rovina”. Con l’aria beota e incravattata, il 117 fa gaffe e battute su tutti i fronti: neri, gay, femministe. Saluta le segretarie a palpate di sedere e, se qualcuna gli fa un augurio, risponde in inglese «me too» (ovviamente citando il movimento anti e post-Weinstein). Siamo al terzo capitolo di una saga che in Francia è un cult e in Italia esce solo ora: il 29 luglio sarà in sala il titolo del 2009, “Agente speciale 117 – Missione Rio”, con la regia di Michel Hazanavicius, prima che arrivi il terzo in autunno.

Bellocchio autobiografico

È invece già al cinema il documentario di Marco Bellocchio “Marx può attendere”, fuori concorso. L’81enne autore de “I pugni in tasca” (1965) e de “Il traditore” (2019) è stato accolto con un’ovazione alla consegna della Palma d’oro d’onore, consolando gli italiani per il mancato premio a Nanni Moretti. «È il regista più giovane che abbiamo, sempre curioso dell’altro» ha detto Paolo Sorrentino, chiamato a consegnargli il riconoscimento alla carriera. Ogni suo film è un tassello «della sua lunga, necessaria, meravigliosa ribellione con e contro se stesso».

“Marx può attendere” racconta la sua storia personale facendosi coscienza collettiva, sviscerando le dinamiche della famiglia e le radici cattoliche, guardando in faccia i tabù e le rigidità patriarcali che hanno segnato più di una generazione. Tutto ruota intorno al fratello gemello del regista, Camillo, morto suicida a 29 anni, nel 1968, anno della contestazione. Bellocchio scava nella memoria, interroga i fratelli e le sorelle, lo psichiatra Luigi Cancrini e il prete Virgilio Fantuzzi, oltre a testimoni come la sorella della fidanzata di Camillo.

Era un ragazzo bellissimo e timido che si sentiva fallito rispetto ai fratelli più brillanti di lui, a scuola e nella vita. Per anni aveva condiviso la stanza con il primogenito, che aveva problemi psichiatrici, ma nessuno si era chiesto se e quanto ne soffrisse. «Le famiglie sono così distratte: per questo oggi ha fortuna la psichiatria, che prova a capire cosa c’è dietro il silenzio», dice il regista, mettendosi a nudo nelle proprie debolezze con grande onestà umana e intellettuale.

«Nessuno intuì la tragedia di Camillo, nessuno seppe aiutarlo. Io stesso neanche ricordavo la lettera, ora ritrovata, in cui mi chiedeva se avrei potuto coinvolgerlo in qualche modo nel cinema. E quando mi parlò del suo disagio, gli dissi quattro cazzate, compreso che avrebbe potuto uscirne aderendo alla rivoluzione del '68. Allora non capii la sua risposta: "Marx può aspettare"».

Gli ex-aequo

Tornando al Palmarès, dev’esserci stata una bella lotta tra gli otto componenti della giuria guidati da “monsieur president” Spike che, difatti, hanno dato ben due riconoscimenti ex-aequo. “A Hero” dell’iraniano Ashgar Farhadi, che centra i suoi film su scelte morali dalle conseguenze impreviste (premio Oscar per “Una separazione” e “Il cliente”) ha ricevuto il Gran Prix insieme a “Compartment n. 6” del finlandese Juho Kuosmanen, che segue l’incontro in treno tra due persone molto diverse che poi si aprono una all’altro.

“Memoria” del thailandese Apichatpong Weerasethaku (“Lo zio Bonomee”), con Tilda Swinton in viaggio nella foresta amazzonica per capire il mistero dei boati che solo lei sembra sentire, ha diviso il Premio della Giuria con “Ahed’s Knee” dell’israeliano Nadav Lapid, un inno alla libertà contro i tentativi di censura. Miglior regista: il francese Leos Carax per il musical punk rock “Annette”. Miglior sceneggiatura: “Drive my car” del giapponese Ryūsuke Hamaguchi, salutato da molti critici come il capolavoro da Palma, tratto dall’omonimo racconto di Haruki Murakami, sonda il rapporto complesso tra creatività e sessualità, lealtà e tradimento, raccontando la relazione tra Yusuke, attore e regista teatrale, e la moglie Oto, una scrittrice che fa sesso mormorando le fantasie erotiche da trasformare in racconti.

È rimasto invece fuori concorso un altro omaggio letterario: “Deception” di Arnaud Desplechin, tratto da “Inganno” di Philip Roth, è di fatto un ritratto del grande scrittore americano che qui parla francese e ha i modi dolci e teneri dell’attore Denys Podalydès mentre Léa Seydoux interpreta meravigliosamente l’amante inglese di cui il protagonista, come lo stesso Roth, riporta sofferenze e riflessioni nel suo nuovo romanzo, senza filtri tra scrittura e vita.

E ancora, migliori attori: la norvegese Renate Reinsve per “The Worst Person of My Life” di Joachim Trier, che ritrae una giovane donna tra gli amori e la carriera, e l’americano Caleb Landry Jones che ha interpretato l’autore della strage di Port Arthur nel 1996, nel film “Nitram” dell’australiano Justin Kurzel.

French dispatch

Dei film statunitensi, neppure il favorito “The French Dispatch” di Wes Anderson è entrato nelle grazie della giuria. Il suo attore preferito invece, Bill Murray, ha fatto un regalo a sorpresa al pubblico. Dopo la proiezione di “New Worlds: The Cradle of Civilization”, il documentario di un suo recital teatral-musicale, in cui legge brani letterari e canta fra l’altro pezzi di Tom Waits, è salito sul palco per cantare accompagnato da piano, violino e contrabbasso.

È un attore comico e un uomo di cultura: dopo l’exploit di “Ghostbusters” (1984) e il flop del film scritto da lui, “Il filo del rasoio”, al quale teneva moltissimo, è andato in Francia per studiare storia e filosofia alla Sorbona. In sala ha cantato in inglese e pure in francese. Ha lanciato rose al pubblico. Ha chiuso con un «vive le festival de Cannes, vive la France». Un suo tutto personale «French dispatch».

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